Saggista, semeiologo, medievalista, filosofo e romanziere, Umberto Eco, morto ieri a 84 anni, è stato una delle presenze più importante della vita culturale italiana degli ultimi sessant’anni, e non solo per il successo internazionale del suo romanzo Il nome della rosa, edito nel 1980 da Bompiani e diventato ben presto un bestseller tradotto in 47 lingue, ma perché ha rappresentato prima di tutto lo scardinamento di un sistema vecchio e ostinatamente accademico nel modo di pensare, insegnare e scrivere.
Oltre che di romanzi di successo, nella sua lunga carriera Eco è stato autore di numerosi saggi di semiotica, estetica medievale, linguistica e filosofia, ma soprattutto ha dimostrato e sin da subito, che si può essere insieme colti e divulgativi, in modo attento ed intelligente.
Nello stesso anno della laurea (il 1954, in filosofia a Torino, con una tesi sulla “Estetica in San Tommaso”), partecipa a un concorso Rai che vince. Compagni di avventura sono Furio Colombo e Gianni Vattimo.
Da quel momento in avanti il percorso di Eco sarà uno straordinario alternarsi di ruoli istituzionali e di imprevedibili “invenzioni”, con elemento distintivo ed unitario la curiosità, che lo porterà a studiare e analizzare con lo stesso rigore l’opera di San Tommaso e Mike Bongiorno, i manoscritti medievali e gli albi a fumetti.
Semeiologo, giornalista, corsivista felice, esperto di libri antichi: in ciascuna delle sue anime Umberto Eco ha dato il massimo della’acume e della originalità, rendendo la cultura popolare, ma senza mai svenderla.
Per questo, forse, nella vita faticò per affermarsi nell’accademia e molti campioni del passato, Pietro Citati per esempio, lo attaccarono ed ostacolarono senza complimenti.
Lui non se ne curava troppo, era pieno di allegria, raccontava aneddoti riproducendo gli accenti e i dialetti, da quando giovanissimo era andato alla Rai dei pionieri, col musicista Berio, con Furio Colombo, ammettendo un lungo flirt con la conduttrice Enza Sampò.
Ma, soprattutto, con i saggi “Opera aperta” del 1962 e “Apocalittici e integrati”, aprì un nuovo modo di fare filosofia e critica, utilizzando stili e metodi colti con materiali della vita quotidiana, dimostrando all’Italia che usciva dal boom economico e si apprestava a dividersi con il 1968, come si dovesse fare cultura nel mondo moderno.
Quando o il terrorismo lacerò l’Italia Eco ammonì, in aula e fuori, che la cultura non è violenza, invitando tutti a frequentare i Comitati di quartiere ed affermando che: “oggi Rastignac, l’eroe di Balzac andrebbe lì”, insistendo nel fare studiare anche la cultura di destra, dal fumettista Chester Gould al poeta Ezra Pound, perché altrimenti non si capirebbe nulla.
Gentile, generoso, affabile, Eco rifiutò le cattedre che l’America gli offriva scherzando: “non posso mica vivere in un paese in cui non si fuma né si beve un caffè”.
Da solo fondò, nel 1988, il Dipartimento della Comunicazione nell’Università di San Marino, ma dovettero passare 20 anni perché fosse nominato professore emerito e presidente della Scuola Superiore di Studi Umanistici dell’Università di Bologna.
Ciò che lo rende unico ed immortale, come ha scritto il Post, è che per lui il lavoro intellettuale non poteva essere confinato in alcuna specializzazione.
Lui voleva specializzarsi in tutte le discipline del sapere o almeno nel maggior numero possibile, non avendo paura di esprimersi sulla cultura in ogni sua forma, dalla televisione, al fumetto, dalla filosofia medievale alla letteratura contemporanea, dalle canzoni alla semiotica, alla politica.
E lo ha fatto bene e con coerenza, fino alla fine della sua vita.
Carlo Di Stanislao
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