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Il drone di Troia

Il drone di Troia

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Consideratelo il drone di Troia, l’arma tecnologica finale della guerra statunitense in questi anni, un singolo aereo comandato a distanza per eliminare una singola figura chiave. E’ un brillante videogioco per adulti, un Mortal Kombat o Call of Duty in cui nemici animati versano sangue vero. Proprio come il gigantesco cavallo di legno che i greci convinsero i troiani a portare all’interno delle loro porte, tuttavia, il drone trasporta qualcosa di mortale al suo interno: una nuova e illegale strategia militare mascherata da impressionante ritrovato tecnologico.

I progressi tecnologici contenuti nella tecnologia dei droni ci distraggono da un cambiamento più fondamentale della politica militare. Comunque siano realizzate – mediante attacchi aerei convenzionali, missili da crociera lanciati da navi o mediante droni – gli Stati Uniti hanno oggi abbracciato le esecuzioni extragiudiziali in territorio straniero. Amministrazioni successive hanno attuato questo cambiamento epocale con scarso dibattito pubblico. E la maggior parte delle discussioni che ci sono state si è concentrata più sul nuovo strumento (tecnologia dei droni) che sul suo scopo (assassinio). E’ un caso di mezzi che giustificano il fine. I droni funzionano così bene che deve andar benissimo uccidere gente con essi.

L’ascesa dei droni

L’amministrazione Bush ha lanciato il programma degli assassinii nell’ottobre del 2001 in Afghanistan, l’ha esteso in Yemen e ha proseguito da lì. Sotto Obama, con una reale “lista dei giustiziandi” della Casa Bianca, l’uso dei droni si è di nuovo ampliato, questa volta di nove volte, con un numero crescente di attacchi in Pakistan, Yemen, Libya e Somalia, così come in zone di guerra afgane, irachene e siriane.

C’è un evidente fascino in una tecnologia che consente a piloti della CIA, del Comando Congiunto delle Operazioni Speciali o dell’Aviazione, di star seduti al sicuro di fronte a schermi in Nevada, o altrove negli Stati Uniti, mentre uccidono gente nell’altro emisfero. Questo vale in particolare per un presidente che conduce una guerra globale con un pubblico che non accetta facilmente perdite statunitensi e con un Congresso che preferisce non essere responsabile di decisioni di guerra e pace. Gli assassinii con i droni hanno consentito al presidente Obama di estendere la “guerra al terrore” a un numero sempre maggiore di luoghi (anche mentre ha tacitamente accantonato tale espressione) senza perdite statunitensi o controllo e approvazione del Congresso.

Un problema, tuttavia, ha afflitto il programma dei droni sin dall’inizio: proprio come gli attacchi aerei convenzionali, i missili comandati e le bombe comandate a distanza, tendono a uccidere le persone sbagliate. Negli ultimi sette anni il numero dei civili uccidi dai droni è andato aumentando. E’ difficile procurarsi le cifre reali, anche se numerose organizzazioni non governative e numerosi giornalisti hanno fatto un buon lavoro di raccolta di informazioni da una varietà di fonti, offrendo stime ragionevoli.

Le analisi di tutte queste fonti suggeriscono che ci sono almeno tre motivi per cui in tali attacchi muoiono civili.

  1. Le informazioni dei servizi segreti sull’individuo nel mirino sono spesso sbagliate. Non si trova dove si ritiene che sia oppure non è neppure chi si pensa egli sia. Ad esempio, nel 2014 un’organizzazione britannica per i diritti umani, Reprieve, ha compilato dati su attacchi di droni che avevano attaccato specifici individui in Yemen e in Pakistan. Secondo il Guardian il lavoro di Reprieve

“indica che persino quando gli operatori attaccano individui specifici – il tentativo più focalizzato di quella che Barack Obama chiama ‘uccisione mirata’ – uccidono un numero molto maggiore di persone che non i loro bersagli, spesso avendo necessità di attaccare più volte. Tentativi di uccidere 41 uomini hanno causato la morte di un numero di persone stimato in 1.147 a tutto il 24 novembre [2014]”.

Alcuni di questi uomini risultano sui media essere stati uccisi più volte. Anche se non sono morti nel primo, secondo e in alcuni casi terzo tentativo, altri sono morti certamente. Reprieve riferisce anche un caso particolarmente vergognoso di scambio di identità:

“Una persona con lo stesso nome di un sospetto terrorista nella ‘lista dei giustiziandi’ dell’amministrazione Obama è stata uccisa da droni statunitensi al terzo tentativo. Suo fratello è stato catturato, interrogato e incoraggiato a ‘dire agli statunitensi quello che vogliono sentirsi dire’: che in effetti avevano ucciso la persona giusta.”

  1. Non c’è nemmeno un bersaglio con nome e cognome. La CIA ha basato a lungo l’individuazione dei bersagli degli assassinii mediante droni per molte missioni non su informazioni dirette riguardo a un particolare individuo, ma su quella che chiama l’”impronta” di possibile attività terroristica (cioè il comportamento o l’aspetto delle persone che stanno sotto). Tali “attacchi indiziari” hanno messo nel mirino individui non identificati sulla base di qualche attività sospetta, solitamente ricavata dalla sorveglianza mediante droni. Una simile “impronta” può essere vaga come “un gruppo di persone, adolescenti e di mezza età, che si spostano in convogli o portano armi” in paesi in cui molti uomini sono armati. Disgraziatamente, anche se un gruppo simile può in effetti indicare qualche sorta di attività militare, può anche descrivere un matrimonio rurale in, diciamo, Yemen, comportante il trasferimento di un convoglio dal paese dello sposo a quello della sposa, accompagnato a volte da spari di festeggiamento.

Non tutti nel governo sono convinti che gli attacchi indiziari siano una buona idea. Nel 2012 il New York Times ha riferito questa battuta al Dipartimento di Stato: “Quando la CIA vede ‘tre tizi che saltellano’ l’agenzia pensa che si tratti di un campo di addestramento di terroristi”.

Il fatto che gli attacchi indiziari continuino a tutt’oggi suggerisce che il Segretario di Stato John Kerry non è stato del tutto sincero quando, nel 2013, ha dichiarato a un forum della BBC: “Le sole persone contro cui attiviamo un drone sono bersagli terroristici confermati al più alto livello dopo un grande controllo a fondo che impiega un lungo periodo di tempo. Non è che semplicemente spariamo un drone contro qualcuno pensando che si tratti di un terrorista.”

  1. Si sono trovati nel mezzo e così sono diventati “danni collaterali”. Questa è l’espressione che usano regolarmente i teorici dell’esercito per descrivere esseri umani o infrastrutture civili inevitabilmente distrutte in un attacco contro un obiettivo militare legittimo. Naturalmente l’interpretazione del termine “inevitabile” da parte di un operatore di droni può essere diversa da quella di una donna che ha appena perso tre dei suoi quattro figli mentre tornavano a casa dagli acquisti per festeggiare l’Eid-al-Fitr, la fine del mese santo del Ramadan.

Inoltre gli attacchi dei droni non si limitano a uccidere persone, tra cui donne e bambini; distruggono anche edifici e altre proprietà. Ad esempio il Bureau of Investigative Journalism afferma che, in Pakistan, più del 60% di tutti gli attacchi prende di mira edifici residenziali; la casa delle persone. In altri termini il “danno collaterale” si riferisce spesso alla distruzione delle case di sopravvissuti a un attacco di droni.

Non sorprendentemente, alla gente non piace vivere nel terrore di missili mortali che spuntano da un cielo limpido. Molti osservatori hanno sostenuto che le organizzazioni terroristiche hanno sfruttato la diffusa paura e rabbia per gli attacchi dei droni come strumento di reclutamento. Al-Qaeda e ISIS risultano offrire a pachistani, yemeniti e altri un’alternativa allo stare semplicemente ad aspettare un attacco che non possono impedire. La stessa CIA ha riconosciuto il potenziale controproducente delle uccisioni mediante droni, che chiamano “operazioni HVT [High Value Target – Obiettivo di Elevato Valore]”. Un rapporto della CIA del luglio 2009 fatto trapelare sulle “Migliori pratiche anti-insurrezionali” espone i problemi:

“Gli effetti negativi potenziali delle operazioni HVT includono un crescente livello di sostegno agli insorti costringendo un governo a trascurare altri aspetti della sua strategia anti-insurrezionale, modificando la strategia o l’organizzazione dei ribelli in modi che li favoriscono, rafforzando il legame di un gruppo armato con la popolazione, radicalizzando i capi restanti di un gruppo ribelle, creando un vuoto in cui possono inserirsi gruppi più radicali e intensificando o riducendo un conflitto in modi che favoriscono gli insorti”.

Dunque le uccisioni mirate mediante droni presentano problemi strategici di lungo termine. Inoltre i droni possono contribuire a diffondere e intensificare movimenti terroristici e insurrezioni, anziché distruggerli o distruggere i loro capi. Spesso, come ha chiarito Andrew Cockburn nel suo libro Kill Chain [Uccisioni a catena], i successori dei capi assassinati mediante i droni si rivelano spesso più giovani, più efficaci e più brutali.

C’è, comunque, un altro problema con questo genere di guerra. Tali uccisioni – almeno quando hanno luogo fuori da una zona dichiarata di guerra – sono certamente illegali; cioè sono omicidi, puri e semplici.

Le uccisioni mirate sono omicidio

Nella mia famiglia abbiamo una regola: non ci è permesso uccidere qualcosa solo perché ne abbiamo paura. Questo ha salvato la vita di innumerevoli ragni e di altri creature che esibiscono (almeno secondo me) troppe zampe.

Comunque la pensiate sugli aracnidi, dovrebbe davvero essere consentito uccidere persone semplicemente perché ne abbiamo paura? Dopotutto è questo che sono questi assassinii mediante droni: esecuzioni extragiudiziali di persone che di cui alcuni ritengono che noi dobbiamo avere paura. E’ più facile vedere un’esecuzione illegale per quello che è quando l’assassino non è separato dal bersaglio da migliaia di miglia e da uno schermo video. La tecnologia dei droni è davvero un cavallo di Troia, un mezzo distraente, appariscente per contrabbandare una tattica illegale e immorale nel cuore delle relazioni degli Stati Uniti con l’estero.

Non tutte le uccisioni, ovviamente, sono illegali. Ci sono situazioni in cui sia le leggi internazionali sia quelle statunitensi permettono di uccidere. Una di queste è l’autodifesa; un’altra è la guerra. Tuttavia una “guerra” condotta contro una tattica (terrorismo) o addirittura più vagamente contro un’emozione (terrore) è una guerra solo metaforicamente. Secondo la legge internazionale le guerre vere, in cui è legale uccidere il nemico, comportano combattimenti sostenuti tra forze militari organizzate.

Eccettuati i combattimenti in Iraq, Afghanistan e oggi forse in Siria (nei cui confronti il Congresso verosimilmente non ha nemmeno mai dichiarato guerra) la “guerra al terrore” non è per nulla una guerra. E’ invece un conflitto con una lista di bersagli in continua espansione, nessun confine geografico definito e nessun termine prevedibile. E’ una campagna contro qualsiasi concepibile nemico potenziale degli Stati Uniti, condotta a spizzichi e bocconi in molti paesi di diversi continenti. Include continue operazioni clandestine largamente celate a tutti, salvo che ai bersagli. Come impresa è priva del regolare, sostenuto conflitto tra eserciti che caratterizza la guerra in senso giuridico. Tali operazioni rientrano molto meglio in un’altra categoria: assassinii, illegali almeno dal decreto presidenziale 12036 del presidente Jimmy Carter che affermava: “Nessuno, dipendente da o agente nell’interesse del Governo degli Stati Uniti intraprenderà, o cospirerà per intraprendere, assassinii”.

Né il Medio Oriente è la sola regione in cui gli Stati Uniti stanno utilizzando l’assassinio mirato fuori da una guerra guerreggiata. L’esercito statunitense impiega droni anche in parti dell’Africa. In effetti il candidato del presidente Obama alla guida del Comando Africano USA, in tenente generale della Marina Thomas Waldhauser, ha dichiarato recentemente al senatore Lindsay Graham di ritenere di dover essere libero di ordinare autonomamente assassinii con i droni.

E questo è quanto riguardo alla guerra e alla “guerra”. E riguardo all’autodifesa? In ogni stadio della “guerra al terrore” Washington ha proclamato l’autodifesa. Quella è stata la spiegazione per la retata di centinaia di mussulmani residenti negli USA immediatamente dopo gli attacchi dell’11 settembre, alcuni torturati, trattenuti privi di contatti per mesi in un carcere di Brooklyn, New York. E’ stata la scusa presentata per avviare programmi di torture in “basi segrete” della CIA e a Guantánamo. E’ stato il motivo accampato dagli USA per invadere l’Afghanistan e in seguito per invadere l’Iraq prima che, come hanno continuato a dire rappresentantidell’amministrazione Bush e lo stesso presidente, “la pistola fumante” delle presunte armi di distruzione di massa di Saddam Hussein si trasformassero in un “fungo atomico” sopra, si presume, qualche città statunitense.

E l’autodifesa è stata anche la logica del Dipartimento della Giustizia per le uccisioni mirate. In un documentopreparato nel 2011 da tale dipartimento per la Casa Bianca, il suo autore (ignoto) ha elencato le condizioni necessarie per rendere legale un’uccisione mirata:

“(1) Un dirigente informato, di alto livello, del governo degli Stati Uniti ha stabilito che l’individuo bersaglio costituisce una minaccia imminente di attacco violento contro gli Stati Uniti;

(2) L’arresto non è praticabile e gli Stati Uniti continuano a controllare se l’arresto diviene praticabile; è

(3) l’operazione sarà condotta in modo coerente con la legge applicabile dei principi di guerra.”

Ciò sembrerebbe escludere la maggior parte delle uccisioni mirate statunitensi. Pochi dei bersagli erano persone sull’orlo di un attacco violento contro gli Stati Uniti o soldati statunitensi sul campo. Ah, ma nella logica da “Alice attraverso lo specchio” del Dipartimento della Giustizia di Obama, “imminente” risulta non significare “imminente” nel senso che qualcosa sta per succedere. Come spiega quel documento: “La condizione che un leader operativo rappresenti una minaccia ‘imminente’ di attacco violento contro gli Stati Uniti non richiede che gli Stati Uniti abbiamo chiare prove che uno specifico attacco contro interessi o persone statunitensi avrà luogo nell’immediato futuro”.

Risulta che la minaccia di qualsiasi “leader operativo” è sempre imminente, perché “riguardo ai capi di al-Qaeda che pianificano continuamente attacchi, gli Stati Uniti hanno probabilmente solo una limitata finestra di opportunità nell’ambito della quale difendere gli statunitensi”. In altri termini una volta che una persona è stata identificata come “leader” di al-Qaeda o di un gruppo suo alleato, sta per definizione “pianificando continuamente attacchi”, rappresenta sempre un pericolo imminente e dunque è un bersaglio legittimo. C.V.D.

In realtà ben poche delle uccisioni mirate, incluse quelle indiziarie, possono essere difese come casi di autodifesa. Dovremmo chiamarle per quel che effettivamente sono: esecuzioni extragiudiziali.

Lo Speciale Relatore dell’ONU sulle Esecuzioni Extragiudiziali, Sommarie e Arbitrarie concorda con questa visione. Nel suo rapporto del 2013 all’Assemblea Generale Christof Heyns ha indicato che la legge internazionale sui diritti umani garantisce il diritto alla vita. Questo diritto è inserito nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 e gli è dato valore legale, tra altri trattati, nella Convenzione Internazionale sui Diritti Politici e Civili, che gli Stati Uniti hanno sottoscritto. Esistono certamente limiti giuridici al diritto alla vita incluso – nei paesi che hanno la pena di morte – il diritto dello stato di giustiziare una persona dopo un processo legittimo. Giustiziare qualcuno senza processo, tuttavia, è una “uccisione extragiudiziale” e una violazione dei diritti umani.

Obama “confessa”

Giunti a metà del secondo mandato del presidente Obama, le critiche contro questo programma di uccisioni extragiudiziali e specialmente per le vittime civili comportate da esso erano cresciute come funghi. Così nel maggio del 2013, almeno 11 anni dopo che il programma era stato lanciato, il presidente ha annunciato una svolta nella strategia dei droni, dichiarando a un uditorio presso l’Università della Difesa Nazionale che gli USA avrebbero attuato “uccisioni mirate” di militanti di al-Qaeda solo quando vi era la “quasi certezza” che nessun civile sarebbe stato colpito. Ha aggiunto che stava programmando di rendere il programma dei droni più trasparente che nel passato e di trasferire la maggior parte delle relative operazioni dalla CIA al Pentagono.

Nei due anni successivi è accaduto ben poco di ciò. Anche se Obama ha proseguito nel compito di approvare personalmente i bersagli dei droni, la CIA continua a gestire gran parte del programma.

Il 1° luglio ha finalmente fatto un passo verso una maggiore trasparenza. L’Ufficio del Direttore dell’Intelligence Nazionale ha diffuso un rapporto affermando che, fuori da zoni più convenzionali di guerra come quelle in Siria, Afghanistan e Iraq, gli attacchi aerei statunitensi avevano ucciso da “64 a 116 astanti civili e circa 2.500 membri di gruppi terroristici”. Queste stime sono, in realtà, parecchio inferiori a quelle fornite dai vari gruppi che seguono tali uccisioni. Si noti anche, parlando in termini legali, che non solo le vittime considerate “danno collaterale”, ma anche tutti9 quelli che gli statunitensi hanno identificato come “membri di gruppi terroristici”, sono morti per esecuzioni illegali extragiudiziali.

Il documento adempie una delle prescrizioni di un decreto presidenziale di nuova emissione che, tra l’altro, impone al governo di diffondere entro il 1° maggio di ogni anno un rapporto contenente “informazioni sul numero di attacchi attuati dal governo statunitense contro bersagli terroristici fuori dalle aree di ostilità attive [cioè fuori da zone reali di guerra]” nell’anno di calendario precedente.

Allegato al decreto presidenziale vi era una “scheda informativa” che segnalava che un obiettivo del nuovo decreto presidenziale consiste nello “stabilire parametri da seguire da parte di altre nazioni”. Quanto felici sarebbero realmente gli Stati Uniti se altre nazioni decidessero di avere il diritto di uccidere chiunque le spaventi? Come reagirebbero gli Stati Uniti se il presidente siriano Bashar al-Assad decidesse di eliminare uno o due generali statunitensi perché, visto che gli Stati Uniti appoggiano forze che cercano di deporlo, quei generali sono (come dice la scheda informativa) “attaccabili nell’esercizio dell’autodifesa nazionale”?

Alcuni critici del programma dei droni di Obama hanno apprezzato il decreto presidenziale, che in effetti include un nuovo accento sulla protezione dei civili. Ma l’effetto più vasto del decreto consiste nel rendere la pratica dell’assassinio illegale una caratteristica permanente della politica statunitense. Non è previsto alcun futuro in cui gli Stati Uniti non faranno piovere dal cielo la morte su chi non si può difendere. I droni continueranno a volare, ma l’opera del drone di Troia è compiuta.

di Rebecca Gordon – 18 luglio 2016

Rebecca Gordon è una collaboratrice di TomDispatch e insegna filosofia all’Università di San Francisco. E’ autrice di ‘Mainstreaming Torture’ e, più recentemente, di ‘American Nuremberg: The U.S.Officials Who Should Stand Trial for Post-9/11 War Crimes’. Può essere contattata a www.mainstreamingtorture.org).

Questo articolo è apparso inizialmente su TomDispatch.com, un blog del Nation Institute che offre un flusso costante di fonti, notizie e opinioni alternative a cura di Tom Engelhardt, al lungo direttore di edizione, co-fondatore dell’American Empire Project, autore di ‘The End of Victory Culture’ e di un romanzo, ‘The Last Days of Publishing’. Il suo libro più recente è ‘Shadow Government: Surveillance, Secret Wars and a Global Security State in a Single-Superpower World’ (Haymarket Books).

(pressenza)

traduzione di Giuseppe Volpe

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