(di Carlo Di Stanislao) – Nella antologia di racconti pubblicata dalle Edizioni XII, intitolata “Carnevale”,quattordici scrittori raccontano di maschere e misteri in una Venezia (vera o immaginaria poco cambia), durante il Carnevale, che è celebrazione del travestimento, di quella promiscuità ribelle che sovverte l’ordine naturale e morale stabilito dalla chiesa, il riconoscimento di quella ambiguità che, confondendo realtà e apparenza, verità e finzione, mira ad offuscare quella lucidità e giusta inibizione necessarie ad onorare il Creatore.
La festa affonda le proprie radici nei rituali idolatri di antiche superstizioni pagane; tra quelle a noi culturalmente più vicine: i Saturnali ed i Baccanali e per questo, dicono gli studiosi, i travestimenti carnevaleschi erano in origine “raffigurazioni viventi” di esseri demoniaci: “dei sotterranei” esaltati mediante la rappresentazione del “mondo sottosopra”, cioè col sovvertimento di ogni regola sociale ed etica, il capovolgimento dei rapporti gerarchici.
Durante i Saturnali era lecito schernire i proprietari ed i governanti; tutt’oggi, d’altronde, fra le principali attrazioni del carnevale vi è il dileggio di personalità politiche e autorità civili.
I Baccanali si celebravano nel mondo greco e durante tali feste erano consueti gli sbevazzamenti, soprattutto in onore di Dioniso, dio del vino e protettore delle vigne. Sotto l’effetto dell’alcool si cercava di dimenticare i pesi dell’esistenza; era considerato lecito trasgredire ogni norma, trascendere in pratiche orgiastiche e giochi immorali, dando libero sfogo alle passioni umane.
Con il cristianesimo, le stesse sacre Scritture condannano il Carnevale quale celebrazione del paganesimo e dello scherno, invitando i peccatori a ravvedimento (Prov.1:20-23), esortano i credenti a non “scherzare” con la volontà di Dio, cedendo ad alcun compromesso spirituale.
Insomma, per il cristiano, il Carnevale è l’osceno trionfo di una ambiguità mirante ad offuscare quella lucidità e giusta inibizione che servono ad onorare Dio.
Nonosrtante questo, però, il Carnevale, parte il 17 gennaio, festa di Sant’Antonio abate, il protettore degli animali domestici raffigurato nell’iconografia cristiana con bastone, campanello, fuoco e soprattutto con l’immancabile maiale.
Non solo in Sardegna, con l’unica festa calendariale non collegata alla liturgia cattolica, ma in tutta Italia (soprattutto nel Veneto, in Piemonte e nel Meridione) la festa comincia con il santo del fuoco e delle pire, del passaggio dal buio alla luce, dei riti propiziatori per la terra e la sua fecondità.
A Bagnaia, nel viterbese, come a Pescia Romana, piccola frazione di Montalto di Castro e nel vicino Parco di Vulci , il protettore del bestiame, festeggiato col fuoco propiziatorio, apre il periodo del mascheramento, con parate dominate da elementi giocosi e fantasiosi, per celebrare è la circolazione degli spiriti tra cielo, terra e inferi.
Ovunque sotto il manto della baldoria “scaccia pensieri”, il Carnevale perpetua la sostanza dell’esorcismo “scaccia spiriti”, rimanendo di fatto ricorrenza pagana, con tutto il suo fardello di contraddizioni.
La relazione fra il santo abate celebrato il 17 del mese di gennaio dal calendario cristiano e il Carnevale è antica, esplicata attraverso varie manifestazioni, in cui è possibile cogliere un comune denominatore di matrice agro-pastorale.
E, ovunque, si preparano le maschere, che, in ogni comunità, rappresentano un rituale dalle origini comuni e dallo scopo simile: allontanare il male e vincere la paura.
Il “carrus navalis”, nella Roma antica, designava un grande carro a forma di barca portato in processione nel mese di febbraio per lo svolgimento di particolari riti di purificazione dedicati a Dioniso.
Oggi non più il dio della sfrenatezza dei riti, ma il Santo Cristiano più legato al mondo rurale, apre e suggella questo periodo di festa.
Santo e martire, Antonio Abate, eremita egiziano, considerato il fondatore del monachesimo cristiano e il primo degli abati, nel 561 ebbe, grazie ad una rivelazione divina, scoperte le proprie reliquie, che vennero trasferite nella chiesa di San Giovanni Battista ad Alessandria e, nel 635, durante la conquista araba, portate a Costantinopoli , ove stettero fino al tempo delle crociate, fino a quando un cavaliere le portò a Motte -Saint-Didier, riposte in una chiesa consacrata da papa Callisto II, nel 1119.
Qualche decennio prima era già stato istituito l’Ordine dei monaci di Sant’Antonio, che, nel 1491, trasferirono le reliquie del santo (ormai definto ‘magno’) a Saint Julien, vicino ad Arles. Le stesse, infine, furono traslate nella nella Chiesa di Saint-Antoine, ove si sviluppò la devozione principale, che riguardava la guarigione dal ‘fuoco di Sant’Antonio’.
Il fuoco, il bastone, l’animale, il saio monastico, l’assistenza, divennero i simboli devozionali principali
legati al culto di sant’Antonio abate, e sono ancora oggi presenti nella tradizione religiosa popolare.
Il 17 gennaio, in vari paesi delle più diverse regioni italiani, fuoci si accendono in onore del santo e come apertura del periodo di Carnevale.
Uno dei falò più belli si svolge a Frattamaggiore, paesino dell’area aversana, dove, nella Chiesa dedicata
all’Annunziata e a Sant’Antonio, appnto esiste un altare che è sormontato da una magnifica statua lignea dedicata al santo.
L’inserimento del culto antoniano in quella chiesa ha sicuramente motivazioni ancora più antiche, e nella dinamica socio-religiosa del passato esso si spiega con il carattere rurale della comunità paesana e con le
attività assistenziali e congregazionali che si diffusero nella diocesi aversana (Aversa, Giugliano, Frattamaggiore) a partire dal XV secolo con l’istituzione religiosa ed ospedaliera della Annunziata (Ave Grazia Plena).
Intorno alla chiesa ancora oggi si allestisce una delle più importanti feste regionali dedicate al santo
eremita, e l’altare del santo è meta di un pellegrinaggio devozionale antico che si ripropone in maniera
intensa pure nella modernità. Molte sono le attività e le tradizioni popolari che ancora persistono ed
hanno luogo nel giorno della festa del santo, consentendo il recupero di un patrimonio di valori e di comportamenti ed il mantenimento di un legame antico e rispettose tra le generazioni.
Nell’Italia meridionale Sant’Antonio Abate è comunemente chiamato “Sant’Antuono”, per distinguerlo da Sant’Antonio di Padova e a Serracapriola, ridente paese al nord della Puglia, è ancora viva la tradizione di portare il “Sent’ Endon”, cioè di girare per i negozi e le abitazioni suonando strumenti tipici della tradizione paesana e cantando in vernacolo, canti dedicati al Santo, inneggianti il riso, il ballo e i prodotti derivati dalla lavorazione del maiale, quali mezzi per “svernare”; a capo della comitiva c’è un volontario vestito da frate a simboleggiare il Santo che con la propria forcinella ( lunga asta terminante a forcina ) raccoglie dolci e salumi che vengono donati per ingraziarsi i favori del Santo.
Nel nostro Abruzzo tanti piccoli centri oggi si animano e la gente dei luoghi prepara mucchi di legna o colonne di canne che, una volta accese, rischiareranno scorci e piazze, danno luce a facciate di palazzi e chiese nei tanti borghi.
A Fara Filiorum Petri, in provincia di Chieti, si bruciano le farchie, gigantesche colonne di canne che vengono innalzate davanti la chiesa di Sant’ Antonio Abate ed incendiate nella sommità. Nel suggestivo spettacolo delle fiamme che guizzano nei colori bruni del tramonto, il paese festeggia insieme ai visitatori con canti e musica del folclore abruzzese, buon vino e cibi tradizionali.
A Scanno si festeggia Sant’Antonio il Barone, dalla antica leggenda “de lo beatissimo egregio Missere li barone Sancto Antonio”, uno dei più interessanti documenti della antica poesia volgare abruzzese. Opera di un chierico che dovette diffonderla, come mostrano chiare tracce della tradizione orale, in tutta l’area aquilana, il componimento è giunto fino a noi nel Codice Casanatense 1808, studiato da Vittorio Monaci che su esso tracciò il quadro delle origini linguistiche e tematiche della Letteratura italiana. Databile ai primi anni del Trecento la Leggenda è entrata nel repertorio dei poeti di occasione, specie in quelli appartenenti al mondo pastorale ed ha improntato moltissime orazioni in uso delle compagnie di questua che, in occasione della festa del Santo, attraversano ancora l’Abruzzo.
Ancora in provincia de L’Aquila, a Pratola Peligna, la tradizione vuole che la sera del 16 di gennaio,si svolga una “rappresentazione in costumi caratteristici” con Sant’ Antonio e il diavolo, impersonati da due confratelli della SS.Trinità, accompagnati da musicanti che cantano la vita, le tentazioni e i miracoli del santo e girano per le vie del paese fino a tarda notte. Il 17 gennaio per la festa di Sant’ Antonio a Pratola è antica usanza benedire gli animali; dopo la funzione della santa messa, presso la chiesa della SS.Trinità, la statua del santo viene portata in processione fino a piazza Garibaldi nel centro del paese, dove il Parroco impartisce la sua benedizione ad un coloratissimo corteo composto da animali domestici.
Infine nella teramana Atri, la sera del 16 gruppi di giovani girano per le case e le masserie di campagna cantando “Lu Sand’Andùne”, un canto recitato, una rappresentazione in cui compare il diavolo, nell’intento vano di tentare il Santo. Dopo la rappresentazione si è soliti mangiare salsicce, salsicciotti, formaggio, prosciutto e bere del buon vino.
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