Gli assomiglia più che mai “Noi/Altri”, spettacolo con varie tradizioni musicali, sciorinate con passione e non messe a confronto.
Gli assomiglia per profondità, intelligenza e brio, doti che da sempre ne accompagnano il percorso.
L’8 dicembre, in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, Moni Ovaida, attore, scrittore, cantante, aveva presentato a Milano il suo nuovo spettacolo: “Cantavamo, cantiamo, canteremo” in cui, insieme a Lucilla Galeazzi, interpreta una serie di canzoni di protesta composte in Italia, in Spagna, in Messico, tra la fine dell’Ottocento e per tutto il Novecento.
E il 27 gennaio, al Comunale de L’Aquila, con preambolo di due ore, nella piazza antistante, per sostenere con forza e convinzione un progetto promosso dall’associazione culturale “L’Impronta” e rivolto ai giovani; Ovaida è stato straripante, imbastendo un merletto raro, delicato ed avvincente, con una trama di musica e narrazione, incentrato sul rapporto tra la musica colta, soprattutto la classica del ’900, quella ebraica del centro-est Europa e quella Rom e regalando a tutti una grande lezione di civiltà e di stile.
Una lezione che ci ricorda, in questa città ancora ferita e lasciata ad una lenta agonia, che da soli ci si rialza e lo si può fare solo recuperando dignità e cultura, radici e forza dal passato, senza inutili attese e false speranze, né lotte separatiste o fratricide.
Come ha recentemente sottolineato il filosofo francese Alain Finkielkraut, nel bel libro “Et si l’amour durait”, dove fa tesoro della lezione di quattro autori letterari che dell’amore hanno scritto a partire da una posizione risolutamente antiromantica e molto moderna: Madame de la Fayette, Ingmar Bergman, Philip Roth e Milan Kundera; siamo nell’epoca della approssimazione e della provvisorietà, un’epoca che ha “terremoto” ogni reale valore.
La rinuncia alla durata marca un’epoca del mondo, ha scritto Paul Valéry.
Ed ora, siamo entrati nell’era della provvisorietà: i nostri impegni non ci impegnano più, la durata è stata sostituita dall’intensità, il criterio è diventato l’intensità e non l’amore, o per lo meno quel che succede è che dell’amore non si trattiene che l’intensità amorosa.
E, in fondo, l’amore che dura, per la cultura, per l’impegno, per gli ideali, per le differenze, è stato il tema del lungo recital di Ovaida, in un Comunale gremito e vibrante, commosso ed entusiasta, mentre fuori le macerie sembrano scomparse, per qualche ora, e tutto era tornato composto in una coscienza nuova e rivelata, fatta di proposizione e di bello.
Benjamin Constant scrive in “Adolphe”, il suo unico e magnifico romanzo, di aver voluto prendere in esame quella che definisce una delle principali malattie morali del nostro secolo: quell’inquietudine, quell’assenza di forze, quell’analisi pepetua che colloca una riserva mentale a fianco di tutti i sentimenti e che così facendo li fa sfiorire fin dalla loro stessa nascita.
Oggi, in questa nazione e soprattutto in questa città, siamo tutti cugini di Adolphe, siamo tutti disincantati e disillusi sin dall’inizio, per così dire.
E allora ascoltiamo il “civile” Ovadia che, con parole e canto, ci sospinge a credere in noi stessi, perché, anche se feriti e imperfetti, restiamo comunque uomini e come tali bisognosi di speranza e di casa.
Moni Ovadia, con la sua Stage Orchestra e l’Ensemble Nuovo Contrappunto diretto da Mario Ancillotti, per il giorno della memoria, ci ha restituito al’incanto del sogno e alla necessità di un riscatto.
Grazie.
Carlo Di Stanislao
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