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B-movie e addio ad House dal piccolo schermo

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(di Carlo Di Stanislao) – E’ dal 4 febbraio che passo le serate davanti alla Tv, sintonizzato su Iris che manda due serie da non perdere: una dedicata a Enzo G. Castellari e l’altra a Ferdinando de Leo, entrambi registi definiti minimi o minori ed oggi recuperati dalla critica (Tatti Sanguineti in testa), dopo le dichiarazioni di amore di Quintin Tarantino.
Si è iniziato, dicevo, il 4 del mese, con avvio alle 21 e in onda: “Jonathan degli orsi” (1994), “La polizia incrimina la legge assolve” (1973), “Ammazzali tutti e torna solo” (1968), “Il cittadino si ribella” (1974) e “Colpi di luce” (1985).
Di nuovo Castellari ha riempito il palinsesto mattutino della rete Mediaset con altri tre appuntamenti, dal 7 ad oggi, con la riproposta “Ammazzali tutti e torna solo”, e altri due titoli: “Il cacciatore di squali” (1979) e “La battaglia d’Inghilterra” (1969).
E prima dell’omaggio, che parte il 12, a Ferdinando Di Leo, lunedì la rete ha dedicato una “cavalcata” a Sergio Corbucci e Tomàs Miliàn, di cui a marzo si festeggeranno gli 80 anni, con “Squadra antiscippo” (1976), in cui compare per la prima volta Er Pirata, “Delitto al ristorante cinese” (1981), “Delitto sull’autostrada” (1982) e “Delitto in Formula Uno” (1984).
Dopo questa scorpacciata trash e cinefilica, aspetto domenica la serie di appuntamento curati sempre da Sanguinetti , dal titolo “L’aristocratico di genere”., dedicata al barese Ferdinando Di Leo, sceneggiatore di “Per un pugno di dollari” e regista di numerosi film, con una serie di film fino al 17, fra cui :“Kiss Kiss Bang Bang” (di cui è stato sceneggiatore, 1966), “I padroni della città” (regia, 1976); “Città sconvolta: caccia spietata ai rapitori” (regia, 1975); il 15, “Il ritorno di Ringo” (sceneggiatore, 1965); “Al di là della legge” (sceneggiatore, 1968); e “Una pistola per Ringo” (sceneggiatore, 1964).
Per farmi ancora più felice il pantagruelico Sanguineti ha già annunciato per dopo la maratona “Serpico all’italiana”, che affronta il poliziesco nostrano degli anni ’70, con protagonisti Tomás Milián, Franco Gasparri e Maurizio Merli.
Si inizia il 20 febbraio, alle 13, con “Squadra antiscippo” (di Bruno Corbucci, 1976) seguito da, il 21, “La banda del Gobbo” (di Umberto Lenzi, 1977), il 22 “Il cinico, l’infame e il violento” (di Umberto Lenzi, 1977), il 23 da “Roma a mano armata” (di Umberto Lenzi, 1976) e, in chiusura, il 24, da “Mark il poliziotto” (di Stelvio Massi, 1975).
Tutte buone notizie turbate però da quella diramata oggi, secondo cui, dopo 177 episodi e otto stagioni, Hugh Laurie ha deciso di chiuderla per sempre con House: il dottore più enigmatico, capace e sinistro del piccolo schermo.
Laurie, che con la serie ha vinto anche un Golden Globe, non ha intenzione però di tornare a teatro (dove era ed è apprezzassimo attore shakespeariano), ma ha detto di volersi dedicare alla musica e alla regia.
Ci rattrista l’idea che non vedremo più l’uomo più misantropo, arrogante, cinico, indisponente, ma anche il clinico più bravo del mondo.
Certamente ogni medico vorrebbe essere come House: un medico che arriva alla diagnosi attraverso una ragionata intuizione e se non viene, o si rivela errata, per salvare la vita del paziente rischia di tutto, anche di perdere il posto.
E poi c’è tutta l’altra parte, che magari sfugge al grande pubblico, ma che non può lasciare indifferente un medico e per di più ospedaliero come me, uno che vorrebbe non perdere tempo con le bazzecole e i malati immaginari e dedicarsi anima e corpo ai grandi casi.
Sì perché, anche se non lo confessiamo, sogniamo di liquidare i casi banali in pochi minuti con sagaci battute e di buttarci, ogni giorno, su casi complicati, dove la diagnosi è difficile, dove i sintomi vanno elencati su una lavagna e si riesce a portare, con metodo socratico, i giovani collaboratori sulla strada della coretta soluzione.
Insomma House ci mancherà, perché mentre con E.R. (Emergency Room) l’aspetto squisitamente tecnico degli episodi lasciava posto anche alle turbolenze personal-sentimentali di medici e infermiere e con Grey’s Anatomy si era alle prese con i dilemmi etici di una giovane specializzanda; con lui si andava oltre la storia personale di un medico, perxchè quel medico era anche un paziente con abuso di Vicodin), che impreca, soffre, zoppica ed è infinitamente umano.
Un uomo schietto e solitario ed un medico sui generis, amante della verità e dotato di un fiuto geniale, alla Sherlock Holmes e proprio come lui, di infinite inquietudini esistenziali.
Spero che qualcuno (magari Tarantino), trovi l’energia per portarlo al cinema e molto presto.

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