(di Carlo Di Stanislao) – Si era scritto che sarebbe stata nel cast del nuovo film di Sorrentino (al primo ciak oggi), ma la notizia è stata smentita. Così non la vedremo nella Roma caciarona e felliniana dei giornalisti compiacenti e degli scrittori a corto di ispirazione, delle feste volgari, delle signore al silicone, dei soldi riciclati, dei politici collusi.
Peccato, perché ci sarebbe piaciuto capire come avrebbe recitato accanto a Tony Servillo e Carlo Verdone, in una storia scritta da Umberto Contarello, sotto l’occhio vigile di un regista dalla sguardo ironico e un po’ nauseato, sempre comunque sorprendete.
Angelina Jolie, alla conferenza stampa per l’uscita europea del suo secondo film da regista “In The Land of Blood and Honey”, premiato a Sarajevo e presentato a Berlino lo scorso anno, dice, dopo due anni di stop come attrice, che riapparirà sugli schermi nel live-action basato sulla La bella addormentata nel bosco, “Maleficent”, per vestire i panni della malvagia strega Malefica.
Una notizia che non stupisce visti i numerosi adattamenti attuali di fiabe sul grande schermo, come Biancaneve e il cacciatore (con Charlize Theron) e Biancaneve (con Julia Roberts).
Ma soprattutto non stupisce poiché che conferma i rumors sul coinvolgimento dell’attrice nel progetto, già trapelati nel 2010.
Dopo l’abbandono di Tim Burton, il film sarà diretto da Robert Stromberg, che ha già lavorato al fianco dell’eccentrico Tim in Alice in Wonderland.
Sembra inoltre che, come accaduto al film di animazione della Disney del 1959, con, per la prima volta, attori usati come modelli dai disegnatori, anche in questo caso, più che ispirarsi alla favola di Perrault il plot si ispirerà alla versione dei Fratelli Grimm, conosciuta anche come “Rosaspina”.
E la cosa, essendo protagonista la Jolie, non ci sorprende. Va qui ricordato che le fiabe popolari non nascono dalla fantasia di un autore, noto o anonimo che sia, ma sono il frutto di una lunga serie di storie raccontate e ripetute nel corso degli anni, variegate in mille piccole sfumature.
Affondano le loro radici profonde nel fertile terreno di miti e leggende. La raccolta di fiabe dei fratelli Grimm è forse l’esempio più eccellente in tal senso.
Come acutamente nota nel suo bel saggio “Brunilde e Rosaspina. Mito e fiaba dagli Indoeuropei ai fratelli Grimm” Alessandra Tozzi, il Novecento ci ha fatto assistere ad un fenomeno (che come si vede al cinema dura anche in questo scorcio di nuovo millennio), interessante e sorprendente: il ritorno nella narrativa del Mito e dell’Epica.
Accendendo ancora una volta la fantasia degli uomini, chiamando nuovamente l’attenzione dei cantastorie su di sé, suscitando nuove versioni di antiche narrazioni, il Mito, rappresentato, oltre che sulla carta, anche sul grande schermo, ha dimostrato di essere vivo e vitale nella fantasia e nei sogni.
Scrittori anglosassoni come Chesterton, Tolkien, Lewis, ma anche tedeschi come Michael Ende, hanno proposto ai lettori disincantati della Modernità le loro storie, leggende dai molti significati, dai valori profondi, arcaici, strettamente intrecciati con la storia e i miti dell’Europa. Anni fa, in una fortunata versione cinematografica del mito di Artù, Excalibur di John Boorman, il Mago Merlino pronunciava queste suggestive parole: la maledizione degli uomini è che essi dimenticano.
Una frase quanto mai vera, e sulla quale riflettere. La memoria, sembra dirci Merlino, è tra le risorse umane una delle più importanti: occorre coltivarla come una virtù, con amorevole attenzione. Ci può salvare dalla superficialità di giudizio, dall’ingratitudine, da una vita senza gusto e significato, facendoci invece considerare con più attenzione le realtà con le quali bisogna sempre fare i conti: il bene e il male, il futuro e il passato, il mistero della vita. Le storie di Tolkien, Lewis, Ende, o anche il discusso Harry Potter di Joanne Rowling o coloro, come Mary Stewart, che hanno rivisitato le leggende medievali di Merlino, di Re Artù, dei Cavalieri della Tavola Rotonda, nella loro fervida immaginazione, hanno il pregio di non dimenticare queste questioni fondamentali. Sta tutto qui il loro fascino, quello che fa produrre ancora nuove spettacolari versioni del mito: non è una pura evasione dalla realtà per rifugiarsi nella fantasia, ma è forse l’occasione per volgere lo sguardo verso cose grandi, verso noi stessi e la nostra anima assetata di Bellezza, verso le stelle, cercando i segni del nostro destino. Come ha insegnato il grande creatore di miti J.R.R. Tolkien, la letteratura dell’immaginario può essere lo specchio dei gusti, degli umori e addirittura della condizione psicologica dell’epoca moderna, esprimendo i dubbi, le paure, le domande insoddisfatte, le esigenze profonde dell’animo umano. I miti, i simboli, le leggende e le tradizioni ci rivelano noi stessi.
Non è un caso, probabilmente, che molti di questi grandi scrittori furono insigni medievisti: al centro di tutto il Medio Evo infatti c’era il simbolo: la vita dell’uomo medievale era inscritta in un universo simbolico, dove ogni forma del pensiero, artistica, mistica, teologica, si basava su di esso. L’esperienza quotidiana era esperienza spirituale, nutrita dai simboli che la provocavano, la animavano, le conferivano un valore profondo. L’abilità narrativa e la fervida immaginazione di chi scolpiva le cattedrali gotiche, con i suoi mostri e le sue creature fantastiche, o di chi scriveva la storia della Cerca del Santo Graal o le peripezie di un Re e della sua spada incantata adoperavano il linguaggio del simbolo, che trasfigurava la realtà stessa, ed è stato capace di mantenere la sua intensità e il suo valore, trascorrendo, inattaccabile, il tempo e la storia. Il lettore disincantato di oggi viene quindi provocato opportunamente dal racconto fantastico, sia che si tratti di fiaba o di narrazione epica, di leggenda come di racconto “gotico”; sospeso tra il misterioso e il terribile, è sempre in qualche modo espressione umana sottesa tra il sacro e il profano, a partire dal linguaggio, che reca sempre in sé le tracce di arcaici miti, fino ai contenuti, che sono comunque e sempre quelli del fantastico, ossia dell’irruzione, oscura e inquietante oppure solare e confortante di un evento soprannaturale nella realtà quotidiana.
Non c’è generazione di lettori (o di spettatori) la quale, a dispetto di tutte le mode, non senta la suggestione dell’ elemento fantastico, mitico, fiabesco: un tipo di letteratura portatrice di una sapienza antichissima, che mimetizza i suoi contenuti nel linguaggio apparentemente semplice ed infantile delle fiabe, o del folklore popolare. Il mito è necessario perché la realtà è molto più grande della razionalità. Il mito è visione, è nostalgia per l’eternità.
Il mito non è metafora o allegoria, ma simbolo, ossia segno che rimanda ad un significato ultimo che l’uomo deve riconoscere e interpretare. Il mito, nella storia dell’umanità, non è mai stato contrapposto, come avviene oggi, alla realtà; il mito è sempre stato per sua stessa natura vero, espressione della verità delle cose. Nel mito si veniva a contatto con qualcosa di vero che si era pienamente manifestato nella storia, e questa manifestazione poteva fondare sia una struttura del reale che un comportamento umano. Il mito è un mezzo per dare risposte a questioni fondamentali come l’origine dell’uomo, il bene, il male, l’amore, la morte e per dare spiegazioni ai fenomeni della natura.
Se il mito è il nesso, il legame che l’uomo ha sempre cercato con il senso della vita, esso non può quindi che essere considerato un’espressione naturale ed antichissima del senso religioso che vive nel cuore dell’uomo. Nel corso della Modernità, gli antichi miti d’Europa – celtici, norreni, greci e così via- si sono occultati nelle fiabe.
Un luogo nascosto, protetto, un luogo apparentemente per bambini. Roger Caillois sostenne che “la fiaba è un racconto situato fin dal principio nel mondo fittizio degli incantatori e dei geni. Le prime parole della prima frase sono già un avvertimento: In quel tempo oppure C’era una volta… Per questo le fate e gli orchi non spaventano nessuno. L’immaginazione li confina in un mondo lontano, fluido, impenetrabile, senza rapporto né comunicazione con la realtà di ogni giorno nella quale è pressoché impensabile che essi possano fare irruzione.
Ed è interessante notare l’attenzione crescente, in letteratura e soprattutto al cinema, per i personaggi malvagi e negativi.
Seguiamo sempre Caillois, vediamo come sempre più, nel tempo, la fiaba si spinge nel fantasy così detto gotico o anche horror , in un mondo tutt’altro che immaginario; anzi, con rappresentazioni di creature che fanno le loro apparizioni nel mondo reale, apparizioni che sono incomprensibili, terribili, invariabilmente funeste. (…) Così le manifestazioni del fantastico derivano tutte dallo stesso principio. Esse sono tanto più terribili quanto più il loro scenario è famigliare, le loro vie più subdole o fulminee, quanto più si presentano con un non so che di fatale e d’irrimediabile che si sprigiona da una rigorosa concatenizzazione degli eventi.
Ed un discorso si fatto non poteva non affascinare un animo complesso ed inquieto come quello della Jolie.
Perché se è vero, come ci mostra Goya, che “El sueño de la razón produce monstruos”, è solo la fantasia che genera l’arte ed è all’origine della comprensione e della meraviglia.
(48)