(di Carlo Di Stanislao) – La vicenda narrata in “Love is All You Need “(coproduzione italo-danese nelle sale a Natale prossimo) vede protagonisti una donna malata di cancro (Tryne Dyrholm), tradita dal marito, e un uomo d’affari (Pierce Brosnan), padre del futuro sposo della figlia di lei, che si innamorano. E segna l’incursione del premio Oscar per “In un mondo migliore” Susanne Bier, nel mondo della commedia romantica. E a giudicare dagli applausi degli spettatori al Lido è una incursione riuscita, tanto che ora i produttori si dolgono di averla presentata fuori concorso.
Il segreto del film è che si tratta sì di una storia d’amore, ma con un tratto comico forte: connubio difficile che riesce solo ai grandi.
Al centro della storia comunque (continua ad informarmi il mio amico sul campo) ci sono sempre i temi spinosi della Bier: la famiglia, il matrimonio e le relazioni genitori-figli.
In conferenza stampa la regista danese ha detto: “Volevo da tempo fare una commedia, qualche elemento comico c’é sempre stato nei miei drammi. Questa volta accade il contrario: parliamo di cancro ma in modo leggero. Diciamo che è una storia d’amore con un forte tratto comico”.
E l’operazione pare pienamente riuscita.
Chi ha fallito invece, a giudicare dai fischi, è Terrence Malick, in concorso per “To The Wonder”, dovre affranto i temi de l’amore divino, l’amore terreno e l’amore puro (quello verso la natura) che vengono sviluppate attraverso personaggi che si raccontano attraverso voci fuori campo.
I protagonisti sono Neil (Ben Affleck), dell’Oklahoma, e Marina (Olga Kurylenko), una donna dell’Ucraina che vive a Parigi. I due vivono una storia d’amore con i suoi alti e bassi, con momenti passionali, di crisi e di tradimento (Neil torna a frequentare Jane, interpretata da Rachel McAdams, una sua vecchia fiamma).
Nel mezzo si sviluppa la vicenda di Quintana (Javier Bardem), un prete in lotta con l’amore di Dio. La pellicola accolta domenica mattina dalla stampa da molti fischi, è comunque lenta e noiosa e ha un sussulto solo in un momento: quando appare Olga Kurylenko nuda, in una scena sexy in cui la ex bond-girl, attrice e modella ucraina, amoreggia, per così dire, con Ben Affleck e in cui mostra tutta la sinuosità del suo corpo da urlo.
Certo la mano di Malick è inconfondibile, la sua capacità di osservare la natura e di immergervi i personaggi è pressoché unica. Ma la storia è monotona e dopo 10 minuti nella sala aleggia una noia mortale.
Fuori dai giochi Malick aumentano le quotazioni per Anderson. I Bookmakers lo danno 5 a 1 e l’entusiasmo a Venezia è alle stelle per il suo “The Master”, segno della sua parabola ascendente dopo i già notevolissimi “Boogie Nights”, “Magnolia” e “Il petroliere”.
Questo suo ultimo film, caratterizzato soprattutto da un grande montaggio, racconta una storia d’amore fra due personaggi, attraverso molti anni e a me ha ricordato quel capolavoro dimenticato (o preso sotto gamba) che è “Tutto una vita” di Lelouch (1974), con un intero secolo raccontato (anche politicamente ed eticamente), attraverso storie singole e private.
Per fortuna sono andati molto bene sia Lo Cascio che Ciprì, nomi già importanti ( il primo è stato in coppia con Franco Maresco il creatore di Cinico Tv e il co-regista di film come Lo zio di Brooklyn e Totò che visse due volte; il secondo è, almeno dai Cento passi in poi, uno dei nostri attori di punta), ma che ora, dopo i loro due film (“La città ideale” e “E’ stato il figlio”), supertano i limiti degli esordienti e ci fanno sperare in una vera resurrezione del nostro cinema.
De “La città ideale”, storia di un ecologista compulsivo, in concorso per la “Settimana della critica” abbiamo già scritto; mentre del film di Ciprì, dato ieri e nel concorso principale (con “La Bella Addormebta” di Bellocchio) ha una trama da tragedia greca e del resto la Grecia è contata qualcosa, assieme agli arabi, nella costruzione dell’identità siciliana.
Un uomo (un corifeo?) è in fila all’ufficio postale e nell’attesa racconta, a tutti coloro che attendono con lui (un coro?), una storia terribile. C’era una volta una famiglia con un padre ingombrante, una madre succube, un figlio un po’ tardo e una figlia geniale. Quest’ultima, ancora ragazzina, venne uccisa per sbaglio in un agguato di mafia.
La vita dei Ciraulo cambiò, ma non come pensate voi: balenò infatti la possibilità di ottenere un indennizzo dallo stato, e nella speranza dell’arrivo di questi “piccioli” i Ciraulo si diedero alla bella vita. Ma nei mesi successivi i debiti si impennarono e i “piccioli” non arrivarono (sembra la storia della crisi economica, no?). Fino a uno scioglimento drammatico in cui il figlio tonto, simbolo di un Sud in cui i giovani pagano colpe non loro, dovette farsi carico dei peccati di tutti…
In entrambi i film dei due “esordienti” pieni di belle speranze, le indirette citazioni di Kafka e di Sofocle (due scrittori che sul concetto di giustizia hanno scritto capolavori), creano un filo contenutistico comune, che si sviluppa attraverso due parabole, due storie fortemente simboliche, in cui lo stile è tutto e in cui si avverte che solo ritrovando l’interiore si può costruire un esteriore più bello e migliore.
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