(Di Carlo Di Stanislao) Il direttore artistico Paolo Virzì ha raccolto le simpatie della amministrazione comunale tutta ma, nonostante questo, il Torino Film Festival e le altre rassegna minori (Cinema Ambiente e Torino Glbt) sono a rischio per mancanza di fondi.
Mancano i soldi dalla Direzione Cinema e sono in forse quelli (2 milioni e 800.000 euro), che avrebbero dovuto stanziare Regione e Comune.
Pare che siano emersi buchi gravosi accumulatosi negli anni e dopo il fallimento dell’accordo di sponsorizzazione con Swatch, Virzì fa appello alla città, perché occorre non solo trovare al più presto i fondi, ma anche uno sforzo collettivo che coinvolga i commercianti con vetrine a tema per degli omaggi al mondo del cinema e con i bar e i ristoratori disponibili a proporre happy hour per gli spettatori e locali musicali pronti a offrire spettacoli sul mondo del cinema.
Nei guai anche Milano, che chiede ai suoi abitanti di finanziare l’edizione 2013 (dal 5 al 15 settembre) del suo Film Festival, con l’iniziativa adotta un regista, di ospitare un regista nella propria dimora, guadagnamdosi, in cambio, la possibilità di andare gratis al cinema.
Un’iniziativa bizzarra ma necessaria, che in due giorni, grazie all’apposito formulario scaricabile dal sito della kermesse, ha già raccolto una cinquantina di adesioni.
“Abbiamo pensato di lavorare sul versante dell’ospitalità sia per coinvolgere di più i milanesi, per far diventare sempre più l’iniziativa il festival della città; sia per motivi economici: con la crisi galoppante i finanziamenti diminuiscono sia dal versante pubblico che da quello privato”, ha detto l’assessore alla cultura, ricordando che la manifestazione porta in dote ogni anno circa 100mila partecipanti, con un buon 70% interessato ai film e il rimanente 30% che partecipa andando ad ascoltare un concerto o con un drink tra i diversi luoghi del Mff, come i cinema Anteo, Palestrina, Spazio Oberdan e le proiezioni all’aperto di Parco Sempione.
Parte invece, come previsto e con completa copertura, dal 26 al 31 agosto a Cogne, Rhêmes-Saint-Georges, Valsavarenche, Villeneuve e Ceresole Reale il Gran Paradiso Film Festival, che prevede dieci film in concorso appartenenti al genere ”animalier”, con messaggi di rispetto della natura e con apertura affidata a Masssimo Gramellini.
Il genere, che oggi ha molti sostenitori anche fra i divi di Hollywood, ha anche investito la moda, con lo zoote (come si chiamava nel mondo ellenico), divenuto “maculato”, con le varianti leopardato, zebrato, tigrato e pitonato.
E, come nel passato, è il leopardato a spadroneggiare, la decorazione che si riconduceva al culto dionisiaco, associato all’ebrietà e alla lussuria, la cui figurazione biblica, la lonza dal “pel macolato”, impedisce a Dante il cammino verso la salvezza e che nell’iconografia quattrocentesca veste Maria Maddalena, riferimento ai trascorsi lascivi della santa, animale associato all’esoterico e al satanico, specie durante il Rinascimento, quando si iniziò a studiare il paganesimo antico e la civiltà egizia, nella quale il leopardo rappresentava un vincolo con l’adilà, o anche, come descritto nel volume Iconologia di Cesare Ripa del 1593, la figurazione della Libidine, che, appunto, aveva indosso una “pelle di pardo”.
Nel cinema il “pardo” è il simbolo del Locarno Film Festival, previsto quest’anno da 7 al 17 agosto, anche lui inseguito da una crisi che morde le calcagna, schiacciato tra le grandi kermesse di Cannes e Venezia, ma con un rilancio che passa attraverso il restauro del Palazzo del Cinema da 32 milioni di franchi, apertura affidata a Denzel Washington e Mark Wahlberg protagonisti di “The Gun” e chiusura cinefila con “Sur le chemin de l’ecole” del francese Pascal Plisson, documentario incentrato sulla storia di quattro ragazzini impegnati in varie parti del mondo – Kenya, Marocco, l’India del Sud e Patagonia – a compiere il tragitto che li separa dalla scuola ed in mezzo venti opere in concorso, di cui 18 in prima mondiale, che si contenderanno il Pardo D’Oro, tra cui giovani autori già conosciuti e apprezzati nell’ambito festivaliero internazionale, come il rumeno Corneliu Porumboiu con “When Evening Falls on Bucharest or Metabolism”; lo spagnolo Albert Serra con “Story of my death”; l’atteso ritorno del francese Emmanuele Mouret che in “Une autre vie” fa recitare due star come Virginie Ledoyen e Jasmine Trinca.
E poi i Cineasti del Presente (sezione con sedici titoli in concorso, di cui 14 “opere prime”), gli omaggi a George Cukor, Werner Herzog e Douglas Trumbull (mago degli effetti speciali) ed i grandi ospiti internazionali: Christopher Lee, Anna Karina e Faye Dunaway.
Mi vengono in mente, in chiusura, le parole di Silvano Agosti, regista indipendente, alla prsentazione del suo film su Basaglia: “il cinema è amore, soprattutto ed è impensabile fare buon cinema col denaro”.
Ed anche se il nostro occidente ha come progetto quello di mercificare tutto, di associare tutto al denaro, anche i sentimenti, le speranze, i sogni, perché in questo modo si ha la sensazione di controllare l’incontrollabile, il cinema continua ad esistere come fatto che, nonostante tutto, dimostra che i sentimenti vanno ben oltre il denaro ed il suo supposto valore.
“Springsteen & I”, ancora oggi, a grande richiesta, nelle sale del circuito di Space Cinema, dopo le grandi giornate di ieri e l’altro ieri, con 230 sale sparse in tutta Italia (record assoluto nel mondo, dopo gli Usa che ovviamente hanno un’altra scala territoriale), diretto da Baillie Walsh e prodotto da Ridley Scott, mette insieme i contributi dei fan arrivati da tutto il mondo (compresa l’Italia): storie, racconti, dediche, segni ardenti di passione e di amicizia, immedesimazione, fratellanza, un coro gioioso, intimo e passionale che racconta quel particolare, imparagonabile legame che lega il Boss al suo pubblico ed anche il suo amore per il cinema, considerata la più pop e la più alta fra le arti.
In coda, visto che il documentario realizzato con i video mandati dai fan offre pochi spezzoni musicali, sono stati aggiunti alcuni pezzi del concerto dell’anno scorso a Hyde Park, compreso il finale con Paul McCartney sulle note di I saw her standing there e Twist and shout, prima di un epilogo in cui di nuovo i fan che lo hanno incontrato, grazie al film, raccontano l’abbraccio diretto col Boss, quello che avevano sognato per tanti anni.
Il ritratto che ne esce è commovente, restituisce la storia di un musicista che non ha mai dimenticato di essere soprattutto l’espressione di una comunità, e a questa comunità ideale fa sempre riferimento, come quando in concerto, proprio all’inizio del film dice: “Siamo qui perché c’è un posto dove vogliamo andare, e per riuscirci dobbiamo farlo insieme a voi”, o parole magiche, parte di un codice ferreo che Springsteen ha sempre rispettato, un patto d’onore stabilito col pubblico al momento dei suoi esordi e che non ha mai tradito in quarant’anni di carriera.
Un patto suggellato al cinema e grazie al cinema, che non è economico, ma emotivo, profondo, sentimentale.
Ha ragione Peppino Delbono, il cui film, girato solo con un telefonino, intitolato “Amore carne”, è uscito in poche sale a Roma, Milano e Firenze, ma impazza in Francia, dove è stato acclamato come psicanalista in ”Io e te” di Bernardo Bertolucci, prete in ”Un chateau en Italie” di Valeria Bruni Tedeschi, uomo buonissimo in ”Henry” di Jolande Moreau, cattivissimo in ”Cha Cha Cha” di Marco Risi e come sia Dio che il Diavolo in ”Goltzius and the Pelican Company” di Peter Greenway.
Un film costato poco, autofinanziato, con incontri ordinari o straordinari, da una camera d’albergo a Parigi a un’altra a Budapest, attraverso testimoni famosi, altri no, che dicono o danzano la loro visione dell’universo.
Un film ‘intimo che abdica la ‘distanza’ e avvicina la realta’ per essere nelle cose” e’ un viaggio in soggettiva dentro e fuori di se’, passando per l’addio a Pina Bausch, incontrando Tilda Swinton e Marisa Berenson, accompagnato da Marie-Agne’s Gillot etoile all’Opera di Parigi e i suoi inseparabili Bobo’ e gli straordinari musicisti Alexander Balanescu e Laurie Anderson.
Un film che dimostra che al cinema il denaro serve a poco e, soprattutto, non è l’essenziale su cui basare ogni trovata.
Ha ragione Vincenzo Scuccimmara quando sul Sole 24 Ore scrive che il taglio di 20 milioni al cinema (mentre altri paesi, pure in crisi, come Francia ed Inghilterra aumnentano gli investimenti) eguali ad una condanna, ma segnala, comunque, che la “filiera” ha carenze anche dio altro tipo su cui è il caso di riflettere attentamente.
I numeri della crisi c si ricavano dall’ultimo rapporto dell’Anica e sono impietosi per quanto riguarda gli incassi in sala dei film italiani: – 34%
Sicché occorre con urgenza mettere sul piatto delle proposte per avviare un nuovo modo di concepire un ecosistema pubblico e privato per l’audiovisivo al passo con i tempi. Secondo me, poiché attualmente la filiera cinematografica è spezzata in tanti tronconi sconnessi, con un sistema parcellizzato in tante realtà particolari, tante monadi scoordinate, spesso con interessi contrastanti, che hanno come unico obiettivo la mera sopravvivenza individuale, bisogno rapidamente cambiare.
Ad esempio, poiché il pubblico che predilige un certo cinema d’autore è composto in gran parte da persone mature e anziane ma le sale sono in maggioranza fatte per la grande massa di giovani che apprezza tutt’altro genere, riprogettare queste sale ed i criteri di accoglienza e strutturazione.
Inoltre, poiché dal rapporto dell’Anica si evince che la rete ammiraglia della Rai, il più importante finanziatore di cinema del Paese, non si capisce perché nelle sue reti essa trasmetta il minor numero di film italiani tra tutte le televisioni nazionali.
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