(Di Carlo Di Stanislao) Edito da Castelvecchi e scritto da Enzo Beretta: “Favole alla sbarra” è la miglior lettura da fare in questi giorni, soprattutto se da bambini ci si è sentiti indignati per le prepotenze delle sorellastre di Cenerentola, oppure impotenti davanti ai tranelli orditi dal Gatto e la Volpe ai danni di quell’ingenuo burattino di legno che sognava di far carriera nel teatro.
Prendendosi scherzosamente sul serio, procuratori, magistrati dell’antimafia, avvocati e docenti universitari, intervistati da un cronista di nera, trascinano nell’aula di un severo tribunale immaginario i cattivi e i buoni dei cartoni animati.
Finiscono alla sbarra la strega di Biancaneve con la sua mela avvelenata, la bramosa Crudelia De Mon, lo spietato Orco di Pollicino e il malvagio Scar. Ma anche i Tre Porcellini e Peter Pan.
I processi alle favole riservano sorprese: condanne esemplari, incredibili assoluzioni, imprevedibili richieste d’archiviazione.
Mai come in questo caso si può dire che la realtà supera la fantasia, e viceversa. Anche i personaggi più indifendibili decidono di giocarsi tutte le carte: messo da parte il pugnale, iniziano a sfogliare il Codice penale alla ricerca di un cavillo al quale appigliarsi per mantenere viva la speranza di farla franca.
Ma attenzione: rubare è reato, anche se ti chiami Robin Hood e saccheggi a fin di bene. Perché la legge è uguale per tutti, almeno nell’Isola che non c’è.
Un apologo attraverso apologhi, intelligente e calato nella realtà, con risvolti morali e non moralistici, che mi ha fatto ripensare a quanto accaduto a Venezia nel lontano ottobre 1984 (allora Enzo Baretta aveva solo un anno), con una bambina dal visetto da bambola di porcellana, due occhioni grandi e un cappuccetto rosso sulla testa, che dice: “Dear wolf rape me”, “Caro lupo violentami!”, mentre una lacrimuccia gli scivola sulla gota sinistra, come se avesse accettato ormai il suo ruolo di vittima, in un messaggio stampato su migliaia di volantini e di magliette fatte circolare a migliaie nella città del Leone di S. Marco, indirizzate ai giudici, nell’ aula del Consiglio provinciale a cà Corner, mettevano in scena, un po’ per scherzo e un po’ sul serio, un Fiorella Mancini, che l’anno prima, per il celebre Carnevale, aveva messo a rumore il mondo dell’ alta moda esponendo a Venezia degli abiti ispirati al travestimento ideati dai più famosi stilisti del mondo, poi aveva fatto gridare allo scandalo perchè voleva fare una festa erotica (subito proibita dal Comune) nell’ isola abbandonata di Sacca Sessola.
E ancora, di ritorno da Parigi per un defilè dei suoi abiti antichi ispirati alla collezione Fortuny, si era divertita a insegnare alle casalinghe italiane che a mezzogiorno guardavano in Tv “Che fai, mangi?”, come si fa per sedurre i propri mariti, presentando addirittura un sexi-grembiulino da cucina che lasciava vasti spazi aperti sul didietro.
Disscorso complesso il suo, troppo complicato per essere palingenicamente recepito. Ed infatti non lo è stato, né dalle femministe né dai benpensanti, che in pochi mesi hanno cancellato il suo nome.
Tornato ad oggi, da vedere, invece, assolutamente, “Mai cos’ vicini”, splendida commedia cinematografica che esce oggi nelle nostre sale, in cui Oren Little (Michael Douglas) è un cinico e indisponente agente immobiliare mal visto nel suo ambiente di lavoro.
Ed il suo ultimo desiderio, prima di andare in pensione, è vendere la sua villa, troppo grande per lui ora che è rimasto vedovo.
In attesa di concludere l’affare si trasferisce in un complesso residenziale e anche qui il suo caratteraccio gli creerà non pochi problemi con i vicini di casa, in particolare con Leah (Diane Keaton). A complicare le cose piomberà nella sua vita la nipotina Sarah, lasciatagli in custodia dal figlio tossicodipendente. Incapace di fare il nonno, Oren troverà proprio in Leah un’alleata inaspettata e chissà, forse, anche l’amore che stava cercando.
Gli interpreti sono superlativi e felice è la mano registica di Rob Reiner, autore di uno dei capoavori degli anni ’90: “Harry ti presento Sally”, autore certamente frivolo, ma con uno stile sempre garbato e pulito, perfettamente a suo agio fra schermaglie sentimentali e scenette gustose e divertenti, sapida ironia e ammiccanti frecciatine.
Magari non saprà raccontare le contraddizioni di una America violenta e selettiva, ma in grado, se in forma, di mostrare acute osservazioni psicologiche sull’animale uomo, sulle sue incomprensioni familiari e sulla sua stessa esistenza come Storia di noi due (2000) con Michelle Pfeiffer e Bruce Willis, e Non è mai troppo tardi (2007) con Jack Nicholson.
Spero infine che qualcuno abbia visto ieri su Iris, invece della noiosa Olanda-Argentina, “L’amore ritrovato”, film tratto da Cassola, con Stefano Accorsi, Maya Sansa, Marco Messeri, Alba Rohrwacher, diretto da Carlo Mazzacurati, che racconta, nella Toscana del ’36, di Giovanni, che durante uno dei quotidiani spostamenti in treno per raggiungere la banca dove lavora, incontra Maria, una ragazza con la quale ha avuto una relazione prima di sposarsi e riapre una storia d’amore intensa e clandestina che solo lo scoppio della Guerra d’Africa può spezzare. Qualche mese dopo, a Livorno per seguire un corso per ufficiali, Giovanni e Maria si ritrovano e la passione si riaccende. Ma un’altra guerra è alle porte.
Ancora una volta chapeau a Mazzacurati, che ha saputo esprimere in immagini “qualcosa di sentito e molto semplice”, la “profondità dei sentimenti”, e “qualcosa di perduto”, non cercato nell’oggi privo di questi valori, ma fissato nel passato, o meglio nella idealizzazione del passato, deformando i tratti delle due figure letterarie, attribuendo a lui una tenerezza nuova e a lei una dignità nuova e modernizzandoli a dispetto del tempo e del luogo.
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