Dal 27 agosto al 6 settembre, con 71 film (tanti quanti i suoi anni) nelle selezioni ufficiali, la Mostra Internazionale di Arti Cinematografiche di Venezia si propone un cinema in grande spolvero, con titolo coraggiosi, a partire da “Anime Nere”, di Francesco Munzi, che il direttore Alberto Barbera ha voluto in concorso per primo (il 29) e che racconta, in modo diretto e rischioso, l’interno Africo, il “buco nero” della Calabria, terra di ‘ndrangheta e di lutti, tratto da un romanzo di Gioacchino Criaco.
Strutturato come un western, il film è una tragedia epica dei giorni nostri, raccontata con attori presi dalla strada e con professionisti, come Marco Leonardi, Peppino Mazzotta, Fabrizio Ferracane, Anna Ferruzzo, Giuseppe Fumo e Barbora Bobulova.
Film viscerale e sincero, come sempre il cinema di Munzi (autore di “Saimir” e” Il resto della notte”), che intende delimitare il bene e il male e si mette nei panni dei ragazzi di cui parla, nei loro destini anche sbagliati, feroci e sempre sconfitti.
“Anime nere” (in sala il 18 settembre per Good films) racconta di tre fratelli, figli di pastori, vicini alla ‘ndrangheta e della loro anima scissa, col più giovane che è un trafficante internazionale di droga, l’altro fa l’imprenditore a Milano grazie ai soldi sporchi del primo ed il terzo, che è anche il maggiore, che sogna il ritorno a una Calabria preindustriale.
L’altro protagonista è Africo, un comune con 3.127 abitanti nella provincia di Reggio Calabria, con la caratteristica di essere diviso in due porzioni a notevole distanza l’una dall’altra: la prima, una piccola enclave nel comune di Bianco, la seconda sulle pendici dell’Aspromonte, ove rimangono i ruderi dei borghi di Africo Vecchio e Casalnuovo.
Un comune in bianco e nero, senza tonalità intermedie, dove già dagli anni ’80 aveva iniziato a consolidarsi un’economia di tipo assistenziale, dapprima con il sussidio erogato ai profughi, poi grazie ai sussidi di disoccupazione; con un’ultima fonte di sussistenza costituita dalle rimesse dei lavoratori africesi emigrati.
Un pabulum per la disperazione e la malavita uno dei lati di un orribile triangolo che compone a San Luca e Platì, culla della mafia più potente al mondo, e dove la parola ‘ndrangheta non esiste, non la si pronuncia e dove l’omertà è totale.
Nel maggio scorsom, con un videodocumentario Ruben H. Oliva ha documentato il fatto che proprio lì, a casa sua, la ‘ndrangheta ha sepolto scorie mortali, con decine di storie rapccapriccianti di malattie e deformità, a partire da quelle di cui il capo della direzione distrettuale antimafia, Federico Cafiero Di Raho, aveva parlato nel suo ufficio-bunker, subito dopo essere arrivato dalla Campania, dove aveva combattuto i Casalesi nella terra dei fuochi.
Facile ricordarsi, per l’occasione, che da quando, nel 1978, Corrado Stajano descrisse Africo e la sua povertà nei minimi dettagli, nulla è davvero cambiato in quel luogo di prevaricazione e di morte, con, nel 2013, grazie alla cocciutaggine di Legambiente, il parlamento che indice una commissione d’inchiesta bicamerale suulla scomparsa dei documenti del Sisde, datati 1992, sul traffico di rifiuti illeciti, archiviati nel 2011. Con sorpresa di molti questa volta le informative del vecchio Sisde appaiono, con grande imbarazzo dei vertici dei servizi e una ventata di dubbi che però non è stata dissolta né ha portato a nessun fatto concreto.
Ho letto da giovane Corrado Alvaro e la sua desolata, sconfitta, irrimidibile Calabria e poi il saggio, del 1995, su di lui e la sua terra senza scampo, scritto per Zaffiri da Corrado Crisi.
Nel racconto “Un Paese”, embrione di “Gente in Aspromonte”, dal quale lo separano un gruppo di anni, dal 1916 al 1930, Alvaro scrive una realtà dolorosa ed ingiusta ed afferma che, guardando a quelle cose e quegli uomini: “non c’è da piangere, ma bisogna trarre, il maggior numero di ammonimenti”.
Questo fa nel suo film Francesco Nunzi, partendo da una analisi antropologica della realtà, aiutato dalla sua origine documentaristica, che consente di creare ambienti e persone vere, autentiche e lavorando, poi, sulla storia del romanzo con molta libertà, inventando uno scontro generazionale che nel libro non c’è e che invece nel film diventa fondamentale.
Così da un lato c’è la strana realtà di Africo, un paese diviso in due, una parte diroccata sui monti e un’altra sul mare, costruita negli anni Cinquanta, dove gli abitanti sono stati deportati quasi a forza e dall’altro la storia di una famiglia, divisa tra chi ha fatto i soldi al Nord e chi è restato al Sud e sogna di vivere ancora allevando capre.
Ma ci penseranno le nuove generazioni (il figlio del fratello “pastore”) a innescare una tragedia che ha l’ineluttabilità del destino.
Realizzato unendo attori professionisti che venivano dal teatro e dal cinema, con non-attori selezionati nei luoghi delle riprese, il film è parlato in dialetto, perché questo sia l’emblema di una sorta di scudo dietro cui difendere tradizioni e identità.
A Venezia Nunzi ci era stato già nel 2004 col suo film d’esordio “Saimir”, ella sezione Orizzonti.
Ora, con questo terzo lavoro, entra nella selezione del concorso più importante, raccontando una storia di vendette e di sangue, di faide e di sogni infranti, ambientata nel “triangolo delle Bermude “ della ‘ndrangheta, tra Africo, Platì e San Luca, dove nulla va come dovrebbe e nessuno vede ciò che terribilmente accade.
Carlo Di Stanislao
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