Più spesso di quanto si pensi è la mamma (o più raramente il papà o altri adulti) a “far ammalare” il proprio bambino: si tratta della “sindrome di Munchausen per procura” e da uno studio condotto presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore – Policlinico Universitario ‘A. Gemelli’ di Roma, citato di recente anche in un lavoro pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica The Lancet, è emerso che si tratta di una patologia che spesso resta nascosta e non diagnosticata e che i casi che vengono alla luce potrebbero rappresentare solo la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più diffuso e doloroso di quanto si pensi. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Journal of Child Health Care dall’equipe coordinata dal professor Pietro Ferrara dell’Istituto di Clinica Pediatrica dell’Università Cattolica di Roma. La sindrome resta per lo più sconosciuta e di difficile diagnosi per quanto sia una realtà dolorosissima, che non di rado trova spazio nelle cronache e che raramente le vittime riescono a raccontare: è il caso di Roos Boum, scrittrice olandese e autrice di dieci romanzi che, in un libro autobiografico appena pubblicato in Italia edito da Franco Angeli (La Sindrome di Munchausen per procura. Malerba: storia di una infanzia lacerata), racconta il suo calvario di vittima della madre che ha inventato per lei una malattia devastandone la vita.
La sindrome di Munchausen, spiega il professor Ferrara, sempre più considerata nella letteratura scientifica come “malattia fabbricata da chi si occupa del bambino”, è “una vera e propria forma di abuso nei confronti dei minori che può portare anche a esiti estremi quali la morte del piccolo. A livello scientifico internazionale la sindrome è ben riconosciuta, ma in Italia, come d’altra parte in molti Paesi del mondo, si tratta ancora oggi di un fenomeno sottostimato e riconosciuto con difficoltà, tanto che possono passare anche anni prima di giungere alla diagnosi corretta, cioè può trascorrere molto tempo tra la comparsa dei primi sintomi e l’identificazione della malattia, con il rischio evidente di sottoporre il bambino a esami e terapie inutili o addirittura dannosi”.
Nello studio, spiega Ferrara, “sono stati considerati 751 bambini ricoverati nel reparto di Pediatria del Policlinico Gemelli tra fine 2007 e inizio 2010 e nel quasi 2% dei casi è stato individuato un cosiddetto ‘disturbo fittizio’. Quasi sempre si trattava di disturbi inventati dal bambino stesso ed è chiaro che quando una simile situazione conduce il piccolo fino a un ricovero, vuol dire che è necessario intervenire per dare una mano concreta al bambino e alla sua famiglia, considerando l’evento come chiara espressione di un disagio che trova nella sindrome la possibilità di esternarsi. Ma non è tutto, in 4 casi sono stati riscontrati i criteri per effettuare la diagnosi di sindrome di Munchausen per procura, cioè è stato uno o entrambi i genitori, ad arrecare un danno fisico o psichico al bambino e indurlo a pensare di essere malato. In 3 casi su 4 si è trattato della madre”.
È importante, dice ancora Ferrara, “che quando il pediatra si trova di fronte a sintomi importanti e che durano da molto tempo senza una conferma laboratoristica e strumentale, pensi alla possibilità di questa patologia”. Per accorciare i tempi della diagnosi, conclude il pediatra della Cattolica, “sarebbe utile avere accesso in rete a informazioni sulla storia clinica del bambino, per esempio quante volte è stato ricoverato in altri ospedali, perché spesso le madri o chi inventa la malattia peregrinano da una struttura all’altra. È importante ovviamente, una volta riconosciuta la sindrome, prestare aiuto oltre che al bambino anche alla madre stessa, garantendogli un’assistenza psicologica adeguata”.
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