(Di Carlo Di Stanislao) Una regista in crisi (Margherita Buy), affronta insieme al fratello ingegnere (Moretti stesso) la malattia della mamma Ada (Giulia Lazzarini), ex insegnante di latino, donna ancora piena di vita e di traduzioni di Tacito e Catullo da dispensare alla nipote Livia (Beatrice Mancini). Dividendosi tra le riprese di un film, con un attore americano (John Turturro) che non ricorda la parte e che farfuglia e il ruolo di figlia, mentre la assiste in ospedale o riordina il suo appartamento vuoto, Margherita scopre nella madre una persona diversa da quella che pensava di conoscere, ricca di contatti umani, capace di custodire i segreti della nipote, curiosa verso le cucine esotiche.
“Mia madre”, ultimo film di Nani Moretti, incubato per 4 anni dopo “Habemus papam”, vorrebbe essere il superamento del narcisismo, ma è solo un piccolo film con qualche buona trovata ma tutto il risaputo dell’ormai arcinoto repertorio morettiano.
Il film non scorre, non emoziona, non fa né ridere né piangere e alla fine fa riemergere quanto sosteneva Cocteau: “il cinema è la morte al lavoro”.
Certo è corretta e da ammirare il taglio “!laterale” nel parlare i un dolore personale ed è encomiabile un film su una madre morta senza una vera scena madre. Ma, il dolore che diventa fessura, intercapedine dell’anima, una bolletta che non si trova, un appartamento allagato, l’inutile tentativo di asciugare con i quotidiani quello che è eterno:l’implacabile scorrere della vita, l’avevamo già visto ne “La stanza del figlio”, che meglio aveva raccontato la grazia della sottrazione, l’assenza/più acuta presenza di Attilio Bertolucci.
E’ sobrio questo film, anche troppo asciutto, senza uno slancio né verso il dramma (ed il melodramma), né verso il sorriso, che è lieve e che Moretti sembra non riuscire mai a raggiungere, a possedere.
Tutte le scene legate all’attore Turturro hanno il segno del sorriso, e della vitalità, ma avrei preferito che il personaggio fosse caratterizzato in modo meno caricaturale, un tono sotto diciamo, anche per dare più verità a quella carezza che Turturro fa alla regista e che vuole ricorda che in fondo, dietro alle apparenze, anche nel mondo del cinema c’è un po’ di umanità.
Il film è piaciuto a chi conta: Fofi, la Aspesi, ma da Moretti mi aspettavo qualcosa di più o di diverso da “Un caro diario” in veste più lacera e meno ispirata.
Nel 2010, in fase di montaggio di Habemus Papam, cioè in pieno lavoro, Moretti ha perso la sua amata mamma, Agata Apicella, insegnante di lettere al liceo.
Anni prima aveva e perso il padre Luigi, docente universitario di epigrafia greca e tenendo conto che il fratello Franco è docente di letteratura comparata, si comprende come sia è cresciuto in una casa piena di libri.
Sicchè l’idea era di girare il film in stanze ricostruite ma con i libri veri della sua famiglia è davvero buona, perché, in ogni scena la regista Margherita, cioè il regista Moretti, potesse accarezzarli con amore e rimpianto.
Solo che questo resta nelle intenzioni e si raggela sullo schermo. Ecco quindi il senso che il film mi ha lasciato: una grande idea che si raggela, si sposta troppo di lato, non trova il coraggio e le ali per volare.
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