(di Carlo Di Stanislao) – Certamente da vedere è “Hunger Games”, che alla prima settimana negli Usa ha incassato l’incredibile cifra di 400 milioni di dollari e narra la storia di Katniss Everdeen (Jennifer Lawrence), ambientata in un futuro post apocalittico nello stato di Panem, a sua volta diviso in 12 distretti, dove ogni hanno 2 ragazzi scelti da ognuno di essi, sono inviati a Capitol City, per scontrarsi in una gara mortale dove solamente uno di loro potrà trionfare.
Girato come un reality show mixato con le immagini della guerra in Iraq e in Afganistan, il film è un eccellente compromesso fra prodotto commerciale e cinema di contenuti, con un ritmo serrato, effetti speciali efficaci ed una protagonista davvero in splendida forma.
Jennifer Lawrence è in grado di pietrificare con lo sguardo, mentre lo spettatore riconosce dalle smorfie sul suo viso i conflitti interiori conosciuti nella celebre trilogia libraria.
Il film si concentra sulle vicende principali del primo dei tre romanzi di Suzanne Collins, lasciando indietro alcune parti per esigenze di copione, ma non è mai né scontato né banale: colori sgargianti, personaggi che sembrano quasi finti messi a contrasto con i ventiquattro tributi dei distretti, più umani dal punto di vista stilistico ed emotivo.
Gary Ross, il regista, già autore di “Seabiscuit,” ma soprattutto di “Pleasantville”: un melodramma arguto sulla televisione degli anni ’50 e il suo immaginario puritano, perbenista e ipocrita; lavora la materia con piglio pop, capace di scardinare i principi della società mediatica e plasmare il fantasy per farlo diventare qualcosa di diverso da un prodotto da fast food.
La Collins scrisse il primo libro della sua trilogia incrociando un nervoso zapping notturno con il mito di Teseo che, da sempre, l’affascinava.
A questo aggiunse il Vietnam affrontato dal padre, il senso di ingiustizia e perdita che strappava giovanissime generazioni alla loro felicità.
Un mix esplosivo, a cui Ross aggiunge un’interpretazione etica ancora più decisa e un’eleganza estetica che mescola cinema e linguaggio televisivo con un’elaborata semplicità.
Sfruttando l’audacia dei romanzi e la collaborazione in sceneggiatura della scrittrice, il regista resiste anche alla tentazione di tratteggiare la giovane donna attorno a cui ruota tutto come un’eroina totale: il sistema le instilla il seme della sua corruzione e lei tenta di sviluppare buoni anticorpi.
Molti le partecipazioni illustri che danno valore aggiunto al film: Lenny Kravitz, niente male nei panni dello stilista Cinna, uno che strappa un sorriso, con un buon vestito, anche a chi sta andando incontro alla morte e Donald Sutherland, in una delle sue più indimenticabili prove degli ultimi anni.
Eccellente, negli USA, anche l’accoglienza per “The Avenger”, un colossal 3D, costato molto più degli 80 milioni di “Hunger Games” e che ha fatto incassare alla Mervel 200 milioni nel primo week-end, in cui i vari eroi della celebre casa di fumetti, interpretati da Clark Gregg (Agente Coulson), Scarlett Johansson (Vedova Nera), Chris Hemsworth (Thor), Chris Evans (Capitan America) e Robert Downey Jr. (Iron Man), formano un un gruppo di Vendicatori che lavorano per lo S.H.I.E.L.D. e il Governo degli Stati Uniti, contro un terribile nemico comune.
“Se non riusciremo a salvare la Terra di sicuro la vendicheremo”. È questo il motto del gruppo che in un fumettone di altissimo pregio tecnico, con effetti speciali ben congeniati con la tecnologia 3D e una sceneggiatura che non lascia vuoti, ma che rende dinamico e senza pause il racconto per la sua intera durata, diverte giovani e meno giovani, incantandoli con tutti gli strumenti della avventura.
Bravi non solo i veterani dei loro ruoli (leggi Iron Man e Nick Fury) ma anche i “novellini” come Mark Ruffalo, per la prima volta nei panni di Hulk dopo aver raccolto il testimone di Eric Bana e Edward Norton. Bravissimo anche Tom Hiddleston nei panni del cattivo dal cuore spezzato, reso ancora più desideroso di vendetta nei confronti del fratello dopo il suo esilio da Asgard.
Onore al merito per Joss Whedon, il regista/sceneggiatore che ha saputo creare una trama equilibrata, dove ogni personaggio ha il suo spazio e dove nessun eroe prevarica sull’altro. Un’ impresa colossale se si pensa che la maggior parte dei vendicatori, come Thor e Iron Man, hanno intere saghe cinematografiche ad essi dedicati.
L’unica pecca del film è la sensazione di incompletezza, come se “The Avengers” fosse un preludio per qualcosa che deve accadere,e che accadrà probabilmente nel preannunciato (ma ancora top secret) sequel e nei tre adattamenti già in programma dalla Marvel per i prossimi due anni (“Thor 2”, “Iron Man 3” e “Captain America 2”).
Piuttosto deludente, invece, “American Pie – Ancora Insieme”, ennesimo sequel realizzato dopo tredici anni, con i diciottenni divenuti trentenni, ma rimasti la generazione “X”: una generazione perduta.
Il film è scontato, anzi addirittura banale e al limite del noioso; ma evidentemente richiama se, questo week-end, ha battuto al box-office il kolossal della Marvel, con un incasso di 2.3 milioni di euro e l’elevatissima media per sala di 6300 euro.
E se noioso è questa ottava incursione fra gli immaturi americani, non lo è meno il film a “sette voci” “Gli infedeli”, produzione francese ad episodi (appunto sette), che nasce da un progetto di Gilles Lelouche (niente a che vedere con Claude, ma fratello del drammaturgo Philippe) e dal nuovo Re Mida degli attori, Jean Dujardin, super premiato per “The Artist”.
Qui l’attore è anche regista di un episodio e lavora come cosceneggiatore, ma, stavolta, è tutto da bocciare, senza neanche rinvio a settembre.
L’opera ha solo una luce, anche se mal utilizzata: Sandrine Kiberlain, la professoressa che dovrebbe insegnare agli “infedeli” come non tradire più.
Sebbene il prologo sia molto buono e buona l’idea di partenza, il film, dicevamo, è piatto, insulso ed incompiuto e non vale il prezzo di un biglietto.
Da non perdere, invece, per quelli della mia età e per tutti, “LennoNYC”, che dopo “U.S.A. contro John Lennon” della coppia Leaf-Scheinfeld, è un altro documentario sul periodo americano della rockstar.
Meno agiografico e più personale- c’è anche la temporanea separazione da Yoko Ono- con il solo difetto nella frammentarietà e nella discontinuità emotiva e narrativa, che comunque, è solo un peccato veniale considerando il risultato.
E, per i colori nostrani, da vedere, anche se uscito da dieci giorni, c’è “Diaz”, film di Daniele Vicari, che prima di ogni altra cosa e soprattutto prima di essere un pamphlet o un volantino di rivendicazione, è un film.; un film che ha voluto trovare prima di tutto nel cinema, nella struttura narrativa e nelle dinamiche di genere e poi nei dati fattuali estrapolati dagli atti processuali, fondamenta solide abbastanza da poter resistere alle polemiche e alle partigianerie.
Ricostruzione dei drammatici fatti occorsi nel 2001 a Genova, nella scuola Diaz, in occasione del G8, il titolo fa riferimento a una frase scritta sui muri della scuola, dopo l’infausto raid in cui numerosi attivisti appartenenti a movimenti pacifisti furono feriti nel corso della notte dalle forze di polizia.
Un film duro ed eccellente, che racconta con vigore una delle pagine più vergognose e sconcertanti della cronaca italiana, mettendo a nudo il lato più oscuro e inquietante del nostro Paese, un volto di soprusi e repressione che si nasconde dietro una maschera di civiltà e democrazia.
Eccellente autore di audiovisivi e di corti, Daniele Vicari, esordisce nel lungometraggio, dirigendo Valerio Mastrandrea in “Velocità massima” nel 2002 e di nuovo mostra il suo talento con L’orizzonte degli eventi, storia di un fisico nucleare del Gran Sasso, che entra in contatto con un pastore macedone, sempre con Mastrandrea e con Francesca Inaudi.
In questo suo ultimo film, Vicari si conferma fra i pochi autori italiani capaci di accettare il rischio della ricerca espressiva, seguendo contaminazioni che ridanno linfa nuova a quel processo artistico, viscerale e intuitivo che è il cinema.
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