(di Carlo di Stanislao) – Dal l 25 novembre al 3 dicembre in programma, a Torino, la XIXX edizione del Torino Film Festival, con una retrospettiva su Altman ed una sul meno famoso Eugène Green, regista, scrittore e drammaturgo francese, il cui primo film, nel 2001, “Toutes les nuits”, era già un capolavoro di educazione sentimentale e spirituale, ispirato tanto a Gustave Flaubert quanto a Robert Bresson, tanto bello da vincere senza discussioni il premio “Delluc Opera Prima”. Nel corso del TFF, si potrà gustare la proiezione integrale delle sue realizzazioni sino a “Religiosa portuguesa” in concorso a Locarno nel 2009. E poi “Le monde vivant” del 2003 e “Le pont des arts” dell’anno successivo, senza trascurare i cortometraggi “Le nom du feu” del 2002, “Les signes” del 2006 e “Correspondences” del 2007, episodio dell’omnibus “Memories” con cui era già stato protagonista del Festival di Torino. Nelle sue produzioni, Green, che sarà ospite della rassegna sabauda, ama affrontare, con serenità ideale e ricchezza di rimandi estetici, i temi del rapporto tra la ragione e il sentimento, il legame tra l’istinto e la cultura, e l’intreccio di epoche ed eventi con cui si trovano a confrontarsi i suoi giovani, ma sempre determinati, personaggi. Autore di lavori di rarefatta poesia, è considerato una figura di rilievo non solo per la sua attività di cineasta, ma anche come drammaturgo, impegnato a misurarsi con la tradizione teatrale e musicale barocca, e come scrittore dedito al romanzo (“La recontruction” è del 2008 e “La communauté universelle” è uscita nei mesi scorsi) e alla saggistica (“La parole baroque” del 2001 e “Poétique du cinématographe” del 2009). Ma la retrospettiva più importante è quella al regista, sceneggiatore, scrittore, attore e compositore giapponese Sion Sono, a cui il festival dedica: Il Rapporto Confidenziale, che riguarda in tutto e per tutto la sua persona e ciò che ha donato al cinema. Sono vinse il premio della giuria al Tokyo Sundance Film Festival con il thriller The Room nel 1992 e, parallelamente alla carriera di regista, iniziò una carriera di attore, mentre i registi francesi Jean-Jacques Beineix e Jackie Bastide, utilizzarono alcune sue poesie per il documentario Otak. Il suo ultimo film è del 2011: La doppia vita di Izumi, su una donna, sposata con un famoso romanziere, con una vita sentimentale che sembra essere una mera ripetizione senza romanticismo, che un giorno la donna decide di seguire i suoi desideri e accetta di posare nuda e di mimare un rapporto sessuale davanti alla telecamera. Presto incontra un mentore ed inizia a vendere il suo corpo agli sconosciuti, ma a casa, lei rimane la donna di sempre. Un giorno viene trovato il corpo di una persona uccisa nella zona dei “love hotel” e la polizia cerca di capire cosa sia successo. Presentato al’ultimo festival di Venezia, il film è bellissimo e sovversivo, il ritratto impietoso ed intelligente di una generazione sottoposta a un’insopportabile pressione. Una discesa senza respiratore in tutte le pulsioni più oscure e liminali di più generazioni giapponesi: fisicamente girato nel presente indecifrabile e alienato del dopoterremoto, alle spalle un passato nucleare remoto e prossimo. E il futuro, un urlo di rabbia e di riappropriazione, e forse per la prima volta, di speranza. Sion Sono gira un anime con attori in carne e ossa, ragionando splendidamente, come forse sa fare solo Iwai, sulla sensibilità adolescenziale e sulla capacità introspettiva di alcuni manga contemporanei (Himizu è di Minoru Furuya). Da grande terrorista, in uno scheletro sonoro ossessivo e angoscioso, che fa mancare l’aria (il sottofondo costante delle cronache televisive sul terremoto, i suoni come di telescriventi nelle scene degli incubi – il terrificante paesaggio distrutto che si vede è reale, si tratta della zona di Ishinomaki) inserisce il celebre Adagio di Samuel Barber: un brano così drammatico e così inflazionato (da Platoon a Ma Mère, dai documentari su Auschwitz a qualche sconosciuto film tv, di solito a commentare la fine di un amore o un funerale) che quasi ci si stupisce che possa funzionare. Eppure tutto funziona, magnificamente, anche nei momenti più irrisolti o con qualche figura un po’ meno riuscita (il ladro schizzato) grazie anche alle interpretazioni strepitose dei protagonisti (16 e 18 anni) e alla caratterizzazione precisa degli altri personaggi (il complesso passato del vecchio Yoruno o l’animo gentile di Keita – Mitsuru Fukikoshi, attore molto amato dal regista nipponico e già visto in Love Exposure e Cold Fish). Himizu è una versione parossistica di The End of Evangelion di Hideaki Anno, col suo climax visionario che mette a nudo la confusione del giovane pilota Shinji in un durissimo cammino di crescita rispetto alla pressione che viene dall’esterno. Tornando al festival, nella sezione fuori concorso intitolata Festa Mobile, The Descendants, il nuovo film di Alexander Payne, tra gli autori americani indipendenti più importanti di questi ultimi anni, ed interpretato da George Clooney. E ancora Terri, il nuovo film di Azazel Jacobs, già a Torino tre anni fa in concorso con il sottovalutato Momma’s Man. Inoltre Albert Nobbs di Rodrigo Garcia, atteso film con Glenn Close in panni maschili, il discusso thriller Wrecked con Adrien Brody, L’illusion comique di Mathieu Amalric e Il sorriso del capo, documentario di Marco Bechis sul fascismo realizzato con insoliti materiali inediti del Luce. Si ricorda, poi, che il Gran premio Torino verrà assegnato ad Aki Kaurismaki, regista del profondo nord, con figure strane, rarefatte e melanconiche, in capolavori come L’Uomo Senza Passato, Le Luci Della Sera e Miracolo A Le Havre. Ma i cinema di Kaurismaki che nasce finnico nel 1957 , non è certo solo e soltanto questo. Ma l’incipit è costellato di emarginazione e rimpianto. Solitudine e dimenticanze. L’esistenza scorre via povera e abbandona la terra d’origine per diventare, con consapevolezza estetica e rigore cinefilo, marchio di un cinema contemporaneo. Colto e raffinato. Riconoscibile. D’autore. In questa umanità dolente, urtante e metropolitana, che si tinge amleticamente di sarcasmo e rasenta l’afasia del discorso amoroso quando non afferra la sbrindellata cromatura di un rokkeggiante on the road, Kaurismaki si muove sul filo della indeterminatezza, alla ricerca di una inedita identità. Di perdenti senza passato o ancorati al futuro mancante. Perché nella scarna profilatura dei paesaggi che le avvolgono e rivestono di luci e ombre, le sue creature, siano di derivazione letteraria, onirica, realistica, musicale, legittima o illegittima, hanno bisogno per riconoscersi (e farsi riconoscere) di quelle continue trasfusioni mimetiche, scarti e dissolvenze che solo il cinema può dare. Perche il cinema, dice Aki, gran bevitore e nottambulo incallito, è sempre vivo a differenza dell’umanità. La sua di umanità parte dalla casa madre Finlandia, paese giovane (l’indipendenza data 1917 con la dissoluzione dell’impero zarista), paese di frontiera e lunare isolamento, per approdare non si sa dove. Comunque altrove. Le giornate kaurismakiane (sei titoli fra i più singolari della sua non ingombrante filmografia) che Intercity propone, riflettono la lezione di un cineasta eccentrico e prezioso che, come Bresson, come Dreyer, come Mizoguchi, non trasgredisce mai la dignità e l’umanità dei suoi personaggi. Imperfetti e memorabili. Ludici e straniati. Semplicemente da “vedere”. Va qui ricordato che a Timo Salminen, direttore della fotografia dei film di Kaurismaki, è stato assegnato quest’anno l’Esposimetro d’Oro al Festiva Di Venenzio di Teramo. Tornando a Torino, vi saranno anche Michele Placido e Kim Rossi Stuart, alla ricerca di consensi per il loro Vallanzasca – Gli angeli del male, ma soprattutto, grazie ai direttori Gianni Amelio ed Emanuela Martini, estimatori della settima arte in generale e del vero talento in particolare, Wrecked di Michael Greenspan con Adrien Brody, L’Illusion Comique di Mathieu Amalric e il documentario Il Sorriso Del Capo di Marco Bechis. E, ancora, per una abbuffata veramente cinefila, The Slut di Hagar Ben Aher (Israele, 2011); “Hi-So” di Aditya Assart (Thailandia, 2010) e “Swans” di Hugo Vieira da Silva (Portogallo/Germania, 2011).
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