Io davvero continua a non capire, politica, società ed evidente anche il cinema, dal momento che mi sfuggono i motivi che hanno portato ad un orrore come “Cinquanta sfumature di grigio” (peggiore anche del romanzo) al Berlinale 2015.
La giornalista americana che durante la proiezione non riusciva più a smettere di ridere, contagiando così un gruppo di giornalisti spagnoli accanto a lei e poi via via per tutta la sala, è stata l’eroina della serata e l’unica nota degna di considerazione per un film costato un sacco di soldi, dalle riprese mozzafiato, con voli in elicottero ed un che ha scomodato un’attrice brava quanto Dakota Johnson che viene solamente legata e sbatacchiata qua e la da corde e frustini e non ha modo di mostrare il suo estro interpretativo.
Un film insulso che non piacerà neanche agli amanti dei giochetti erotici, più inenarrabile del libro, una perversione da tinello, provinciale e un po’ vetusta, fin dai presupposti dell’uomo ricco, potente e misterioso che incontra una ragazza giovane e inesperta che vuole salvarlo.
Per fortuna c’è qualcosa da salvare alla 65° edizione del Festival di Berlino: Wen Wenders, che torna con una storia di finzione e sceglie, per la seconda volta dopo Pina, il 3D e per protagonista sceglie James Franco, superbo in questo splendido “Every Thing Will Be Fine”, incorniciato dalla fotografia di Benoit Debie, piena di suggestioni fiabesche, con un vaghissimo eco horror e commentato dalla solenne colonna sonora di Alexander Desplat.
Fra i maestri, Wenders supera sia il connazionale Herzog che il grande Malick e confeziona un film sobrio (dote rara oggi) su un tema davvero difficile: i sentimenti, tema guardato con disgusto sia dfa critico rigoroso e autorialista vecchia scuola, che dai ragazzini e ragazzacci della nouvelle crtique, tema, come si sa, ritenuta massimanente sconveniente e volgare, anche quando – come in questo caso – confezionata col massimo della signorilità registica.
A Wenders, 70enne è stato oggi consegnato l’Orso d’oro d’onore alla carriera e questo suo film, girato in Canadà e prodotto dagli USA, in corsa per gli Oscar è una delle poche cose buonedi un Berlinale mastodontico ma sin’ora deludente, che rende gravoso iol compito della giuria, guidata dal newyorkese n Darren Aronofsky, assegnare i premi.
Noi tifiamo per l’Italia che comunque è presente con opere più che dignitose: “Vergine giurata” con una splendida Alba Rohrwacher, girato fra Trentino e Albania dalla 34enne Laura Bispuri al suo esordio e poi due altre opere prime: “Cloro” e “Short Skin”, queste ultime due nella sessione “Generation”.
Infine, l’immenso Olmi, con “Torneranno i prati” al Berlino Special (dove si presenta anche un assaggio dalla serie tv Sky “1992”), che racconta di Caporetto attraverso la vicenda di due soldati che fanno prevalere la propria coscienza sulle esigenze militari: disobbediscono ai comandi, e la disobbedienza è un atto morale che diventa eroicità quando la paghi con la morte.
A parte la presenza italiana e Wenders, tutto il resto delude a Berlino: Juliette Binoche, protagonista del film in concorso e in costume “Nobody Wants the Night” della catalana Isabel Coixet, storia vera e noisa di un gruppo di donne courage nella Groenlandia del 1908, ma anche Cate Blanchett sia “matrigna” della “Cinderella” di Kenneth Branagh che coprotagonista della nuova opera in concorso del regista cult Terrence Malick, “Knight of Cups”, accanto a Christian Bale e Natalie Portman, anche loro completamente fuori fuoco in un film in cui Malick mescola le idee di The Tree of Life a quelle di To the Wonder e prende ancora di petto una delle molte contraddizioni umane (il desiderio di ambire a qualcosa di più, senza essere capace di raggiungerlo) per mostrare la meraviglia del mondo che abitiamo e la miseria del nostro vivere materialista.
Bello, ma già detto e scontato.
Carlo Di Stanislao
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