(Di Carlo Di Stanislao) Tanti i titoli di riferimento: da Lovelace a Don Jons’s Addiction, da La Religiosa a Vic +Flo Saw a Bear fino a In The Name Of e al sud-coreano Fatal.
In temi sono scottanti: erotismo in tutte le salse e, ancora, religione e violenza, per descrivere un presente fatto di ombre lunghe e di infinite incertezze.
La 63esima edizione del Festival del Cinema di Berlino è partita giovedì 7 febbraio ed ora, al giro di boa, il bilancio è quello di una rassegna attenta agli umori diffusi e che, come al solito, descrive meglio di altri festival il clima che si respira in giro per il mondo.
Oggi, probabilmente, la giornata più intensa con, in concorso, il drammatico “Closed Curtain”, dell’iraniano Jafar Panahi (condannato nel 2009 per propaganda contro la repubblica islamica a sei anni di carcere, al divieto di realizzare e dirigere film, scrivere sceneggiature, concedere interviste e lasciare il proprio paese per vent’anni); realizzato con l’aiuto dell’amico e collega Kambuzia Partovi e, ancora, “Camille Claudel 1915” di Bruno Dumond, che vede per protagonista Juliette Binoce nei panni di una scultrice francese internata in un manicomio.
Fuori concorso, invece, il thriller psicologico “Side Effects” di Steven Soderbergh, incentrato su una donna ansiosa, dipendente dai farmaci, accusata dell’omicidio del marito, con Catherine Zeta-Jones, Jude Law, Channing Tatum e Rooney Mara e, nella sezione Berlin Special, “La miglior offerta” di Tornatore, mentre in quella Forum, il documentario, sempre di casa nostra e firmato da Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, “Materia oscura”: sulla devastante convivenza tra gli elementi della natura – uomini compresi – e la “fabbrica della guerra”, che attraverso una scrittura flessibile, plurale, che non teme deviazioni, brusche interruzioni, esplosioni e improvvise contrazioni, mostra un luogo dove la vita sembra non valere più nulla.
L’assenza di speranze e di aneliti, in un universo dove né fede né ragione paiono destinati a salvarci, sono i temi di questo Berlino targato 2013, dove i film sono privi di speranza, ma scelti per la cura con cui sono stati realizzati.
Non è un caso che l’unico italiano “importante”, anche se fuori concorso, sia “Peppuccio” Tornatore, col suo splendido giallo dall’intreccio virtuoso, con un trionfo di citazioni cinematografiche e di genere: la casa diroccata e la nana misteriosa che sta nel bar di fronte, che sembrano indulgere all’horror e al mistery, con una spruzzata di erotismo per la bellezza di Claire, il ‘topos’ molto cinematografico del vecchio misantropo che si apre alla vita, ai sentimenti e all’amore grazie alla giovane amante, ma inevitabilmente ‘lo perde’.
Un film raro, fra tanti italiani che fanno un pessimo uso della macchina da presa, con l’idea che un film è comunque un’ opera d’arte e che ogni scelta è etica ed estetica assieme.
Sono questi i film da fare, soprattutto oggi, in un’epoca di incertezze, in cui ogni riferimento sembra svanire e persino un Papa lascia il timone di Pietro, spegnendo per molti un faro e trasformandoci in viandanti che non trovano più la strada, pellegrini che vedono la meta scomparire tra le nebbie o naviganti senza più il conforto di una stella polare.
Venti turbinosi scuotono la contemporaneità: la società è disgregata, la famiglia colpita al cuore, la persona ridotta a merce, il trascendente e lo spirituale venduti nel supermercato dell’esoterismo e della new age.
E tutto questo il buon cinema lo registra e lo documenta, con forza lirica ed espressiva e può anche anticiparlo, come è accaduto per Moretti di “Habemus Papam”, dove un uomo umile e grande, animato da forte spiritualità, lascia il compito ai più giovani, diversamente da quanto fanno politici o banchieri, mostrando a tutti che il pontificato non è un potere, ma un servizio, vero e dimostrato, sfiancante e da fare con animo giovane e pugnace.
“A che cosa somiglia la luce di una candela quando è spenta?”, si domandò un giorno Lewis Carrol.
Allo stesso modo, chiunque potrebbe domandarsi: “A che cosa somiglio quando sono solo e nessuno mi vede…, vale a dire, quando mi svesto di tutti i ruoli sociali e delle maschere , utili o prudenti, con cui mi presento agli altri?” In entrambi i casi non si sa come rispondere: la luce di una candela spenta è impossibile da spiegare, esattamente come l’identità della persona che non è in presenza di nessuno né in rapporto con nessuno, perché l’identità dipende dall’essere sociale dei singoli.
Ed è propria questa assenza di socievolezza e di socialità che oggi ci porta ad essere privi di identità e, di conseguenza, di certezze. Questo il cinema migliore lo coglie, come lo colgono le menti migliori, laiche e non, con sfumature differenti.
Una vignetta del 2009 di El Roto (pseudonimo di Andrés Ràbago) mostra un losco figuro che, rivolgendosi al lettore domanda:”Lei pensa ancora o è un cittadino normale?”, perché pensare è oggi un tabù, l’ultimo tabù di un senso di libertà che va scemando (nella cultura, nella politica, nella società).
Quando don Lorenzo Milani dice che “l’obbedienza non è più una virtù”, certamente si riferisce all’obbedienza in ambito militare e di fronte alla legge; eppure il suo discorso ha implicazioni che vanno ben oltre il diritto all’obiezione di coscienza, e significa che non abbiamo scuse, né alibi, né appigli, né pretesti di fronte a qualunque scelta.
Ed è proprio questo, “scegliere e non farsi scegliere”, come scriveva Montale, l’angoscia dela’uomo di oggi, espressa in letteratura da gente come Saramago e al cinema da cineasti capaci, che, fra l’altro, comunicano, con una elegante stile personale, le diverse impostazioni.
Come ci ricordano alcuni grandi film e, adesso, in modo “epocale” e diretto, le parole di Benedetto XVI, scegliere significa mettere in gioco la propria libertà, scommettendo sulla propria scelta. Il salto all’oltreuomo, per riprendere una espressione di Nietzsche, sta nel passare dal contemporaneo sentirsi uomini, perché finalmente liberi e arbitri di tutto, al futuribile trovare il metro di misura della propria umanità, nello scegliere e nel saper portare la responsabilità della propria scelta.
L’oltreuomo, l’uomo che si è liberato, è l’uomo che sceglie e che risponde della sua scelta. Come l’antiquario del film di Tornatore, sedotto e derubato, ma non deprivato della sua dignità più profonda ed umana.
E’ la scelta, quella difficile da compiere, il tema centrale ad esempio di “Fatal”, opera prima del nuovo talento coreano Lee Don-ku, pellicola certo da tenere a mente fra i premi della “Berlinale”, in cui bullismo giovanile, gravi colpe nel passato, illusione di redenzione, possibile pietà, certezza di tragedia; creano le proporzioni del dramma estremo e incombente: l’unico modo di descriversi inserendosi nel relativismo dubbio e comodo del mondo attuale.
Lo stesso vale, ancora da Berlino, per “La religiosa”, il film di Guillaume Nicloux che racconta la melodrammatica storia di una fanciulla (interpretata da Pauline Etienne) che contro la sua volontà viene rinchiusa dalla famiglia in convento e per “Don Jon’s Addiction”, debutto alla regia di Joseph Gordon-Levitt, con la partecipazione di Scarlett Johansson e di Julianne Moore, alla apparenza ridente commedia che ha come elementi sesso, romance e seduzione e dove si raccontano le peripezie di un giovane e moderno don Giovanni – interpretato dallo stesso Gordon-Lewitt – che ha per mentore una donna; ma che, a ben guardare, ha come tema centrale il libero arbitrio e, pertanto, la scelta.
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