Un adolescente in cantina, deciso a fuggire da un mondo di adulti distratti, una sorellastra confusa, irruente, vitale, un autore che torna dietro la macchina da presa dopo quasi dieci di pausa e gira un film seduto su una “sedia elettrica”, libero di essere quello che è sempre stato, regista di grandi idee e di grandi visioni, a prescindere dagli spazi in cui prendono in corpo, che siano quelli immensi e monumentali del Piccolo Buddha oppure quelli soffocanti e minimali dell’Assedio. Bertolucci avrebbe voluto girarlo in 3D , ma dato che ciò avrebbe rallentato molto la realizzazione ha, infine, optato per il digitale. Come avvenne per “Il conformista” (1970), riduzione per lo schermo dell’omonimo romanzo di Alberto Moravia, anche in questo caso l’autore non assicura fedeltà al testo originario e ripropone quello che è diventato quasi un “must” dei suoi titoli (da “Ultimo tango a Parigi in poi”, 1972, in poi), ovvero una sequenza di danza. Qui i due protagonisti ballano sulle note di “Space Oddity” di David Bowie, nella versione italiana abbandonandosi l’uno all’altra, accettandosi, riconoscendosi poiché “la musica ti permette di dire molto di più della conversazione”. Il film sarà pronto il prossimo maggi, o in vista di un’eventuale partecipazione al Festival di Cannes, ma l’ultimo ciak si è concluso pochi giorni fa, in un ingombro scantinato di Trastevere. “io e te” è il titolo di questa ultima fatica del regista premio Oscar e Premio e Palma d’Oro alla carriera, tornato inaspettatamente dietro la macchina da presa dopo otto anni e che ora adatta l’omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti, con il quale ha scritto anche la sceneggiatura, insieme a Umberto Contarello e Francesca Marciano. Proprio in questi giorni (il 9 dicembre) è morto Gilbert Adair, autore del romanzo da cui Bertolucci aveva cavato ul suo ultimo film ”The Dreamers – I sognatori”, uno dei suoi meno riusciti. E, in questi stessi giorni, si è letto che Eva Green, sua protagonista sempre in quel film, poi star di “Casino Royale”, è in trattative per interpretare il ruolo principale del prequel di “300” , sempre tratto dalla novel di Frank Miller e con il titolo di “300: la battaglia di Artemisia”. Bernardo Bertolucci, figlio del poeta Attilio, fratello del regista Giuseppe, allievo meritevole di Pasolini, si è (quasi) sempre dimostrato, prima che grande regista, grande creatore di psicologie umane, un oggetto insolito per il panorama cinematografico italiano, uno degli autori meno prevedibili e più manichei, il cui nome viene associato inevitabilmente allo scandalo, ma se si va a scavare oltre quelle sue immagini così forti, se si punta alla sostanza, si scopre che le sue sceneggiature prendono forza dall’ideologia di Karl Marx, dalla dottrina psicanalitica di Sigmund Freud e dalle melodie di Giuseppe Verdi, il tutto contaminato dalla Nouvelle Vague di Jean-Luc Godard e dal manierismo del cinema hollywoodiano.Il suo esordio, mitico, con Tonino Guerra produttore e Pasolini sceneggiatore, nel 1962, con “La comare secca”, con narrazione, attraverso dei flash-back, di un’indagine su un caso di omicidio nella periferia romana e che ha come vittima una prostituta. Una pellicola modesta e forse scontata, ma che è il primo passo per un cinema “diverso”, che è rimasto tale in tutto uil suo ciclopico svolgimento, con il suo film più bello (“Il conformista”), il più scandaloso (“Ultimo tango a Parigi”), il più epico (“Novecento”) e il più premiato (“L’ultimo imperatore”, con 9 Oscar). Fra tanti film memorabili (ad esempio “La strategia del ragno”, ma anche “Piccolo Buddha” e “Il te nel deserto”), a me è piaciuto, particolarmente, un film minore, girato fra “Novecento” e “L’ultimo imperatore”, un piccolo progetto corale intitolato “12 autori per 12 città” (1990), girato con Michelangelo Antonioni, suo fratello Giuseppe Bertolucci, Mauro Bolognini, Alberto Lattuada, Carlo Lizzani, Mario Monicelli, Ermanno Olmi, Gillo Pontecorvo, Francesco Rosi, Mario Soldati, Franco Zeffirelli e Lina Wertmüller, in cui ha raccontato la sua Bologna con l’incanto di un vero poeta e senza le trite banalità che sono proprie di certo cinema provinciale italiano alla Pupi Avati. Da giovane sono andato in visibilio davanti a “Novecento” ed ora torno continuamente a guardarmi (approfittando della copia conservata presso la Cineteca dell’Istituto Cinematografico Lanterna Magica de L’Aquila), “La tragedia di un uomo ridicolo”: un piccolissimo film, girato con pochi mezzi e con un dono della sintesi quasi sorprendente, che nel suo essere piccolo, oggi, a distanza di trent’anni (è del 1981), si dimostra per quello che è, un film grande. Il protagonista della pellicola, uno splendido Ugo Tognazzi (artista mai troppo ricordato), è in effetti un uomo ridicolo, un meschino, un sordido affarista incapace di accorgersi del proprio dolente stato di precaria commiserevole autodistruzione. Tognazzi è Primo Spaggiari, industrialotto come tanti della Bassa Padana. Alcuni terroristi gli sequestrano il figlio, per la liberazione gli chiedono un miliardo di lire. Si sparge nel frattempo una notizia inquietante: pare che il figlio sia stato rinvenuto morto. Primo Spaggiari, non prova alcun sentimento di pietà, e tenta, approfittando della presunta morte del figlio, di salvare la propria industria dall’imminente fallimento. Si diceva, inizialmente, che Bertolucci è un grande creatore di psicologie umane. Ecco qui un esempio lampante. Spaggiari è una sorta di strisciante vermiciattolo, un industrialotto padano con tutti i vizi (tanti) e le virtù (pochissime) di tutti quelli che hanno faticato una vita per avere un pezzo, anche illusorio, di felicità e che non vuole vedere scomparire tutta la propria “opera d’arte” nel nulla, preferendo sacrificare la vita del proprio amato (?) figlio pur non ritornare nella mediocrità in cui è nato. Tognazzi cesella con grande mimetismo attoriale la psicologia di questo ‘omuncolo’, e scava fin nei più profondi meandri dell’umana psicologia tanto da non nascondere nulla allo spettatore: la truffa perpetrata ai danni del figlio è cinico, senza via di scampo, tenebrosa e cupa come la mediocrità. Come il mondo in noi ed attorno a noi e che, ancora più sordidamente, ci riguarda. “Io e l’altro”, l’ultimo suo lavoro, attiene al filone sui giovani iniziato con Io ballo da sola (1996) e proseguito con The Dreamers – I sognatori (2003) e compone, pertanto, una sorta di trilogia attorno ad una nuova concezione per vivere se stessi durante l’adolescenza, quando le scelte fondamentali sono ancora da compiere e si ha la necessità di esperienze che devono andare oltre l’influenza ambientale ed essere solo ed esclusivamente personali. Ed insieme, insegna allo spettatore, l’apertura mentale necessaria perché non si faccia resistenza di fronte al prossimo, ma lo si accolga in tutti i suoi bisogni, desideri e pulsioni, con l’autenticità disarmante che è propria della’età adolescenziale. Il protagonista di questo capitolo finale sulla gioventù, è Lorenzo, un ragazzino di 14 anni solitario, scontroso ma con una spiccata fantasia, che decide di chiudersi una settimana in cantina tra bevande gassate e romanzi horror, mentre tutta la famiglia lo crede in settimana bianca con la scuola. Sarà interessante vedere come Bertolucci ha raccontato, in un clima claustrofobico, la ricerca interiore di libertà di Lorenzo, che così lascia fuori il mondo con le sue regole incomprensibili e l stravaccato su un divano, circondato di cocacola, scatolette di tonno e romanzi horror, cerca una possibile sublimazione. Ma sarà la coetanea Olivia, che piomba all’improvviso nel bunker con la sua ruvida e cagionevole vitalità, a far varcare a Lorenzo la linea d’ombra, a fargli gettare la maschera di adolescente difficile per accettare il gioco caotico della vita là fuori. Metafora del femminile, ponte fra noi, la nostra realtà ed il mondo che incombe, ma non possiamo lasciare fuori dalla porta. Il film, che vede nel cast Sonia Bergamasco, Pippo Del Bono, Veronica Lazar, è prodotto da Fiction di Mario Gianani in collaborazione con Medusa.
Carlo Di Stanislao
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