(Di Carlo Di Stanislao) I Golden globes non sono propriamente l’anticamera degli Oscar, ma, di solito, designano i prodotti con maggiori speranze di successo ed il fatto che ieri, a New York, abbia trionfato “La grande bellezza di Sorrentino ci riempie di orgoglio e speranza.
Miglior film drammatico ’12 anni schiavo’; migliore commedia ‘American Hustle’; migliore attrice drammatica Cate Blanchett per ‘Blue Jasmine’ di Woody Allen, con Matthew Mc Conaughey che riceve lo stesso premio, al maschile per il ruolo in ‘Dallas Buyers Club’; mentre a Leonardo di Caprio è andato il premio corrispondente per la commedia per ‘The Wolf of Wall Street’ ed Amy Adams si è accaparrata il premio equivalente femminile per ‘American Hustle.
Il premio per il miglior regista è andato al messicano Alfonso Cuaron per la spettacolare dramma in 3d ‘Gravity’, che, secondo gli americani tutti, è il migliore dell’anno, in assoluto e di là dai premi.
Tornando alla vittoria di Sorrentino, era dal 1989 (con ‘Nuovo Cinema Paradiso‘ di Giuseppe Tornatore) che l’Italia non vinceva questo riconoscimento che, allora, aprì la strada per la vittoria agli Oscar.
Ci voleva Jep Gambardella, il giornalista mondano che ci porta per mano a scoprire la bellezza decadente e frivola di Roma (e dell’Italia), per riportare il nostro Paese a sperare, quanto meno nel suo cinema.
Giovedì saranno annunciate le candidature per Los Angeles per il “premio dei premi”, ma intanto Sorrentino si gode il momento di gloria e il ricordo di una serata speciale, iniziata già molte bene per lui, grande appassionato di musica, per il posto in platea accanto a Bono, che si è mostrato molto felice per la vittoria del suo film.
La vittoria di Sorrentino ed il successo che il film sta riscuotendo sia negli Usa che in America Latina, segna l’affermarsi di uno stile tutto nostrano (di Sorrentino e Garrone, soprattutto), in cui, oleograficamente in Sorrentino e pacatamente in Garrone, dispiega l’immagine come ordigno primitivo, architetta una morsa tra l’immagine e la Storia in cui la seconda soccombe alla prima e così facendo, con il mutamento dell’immagine, il cinema diventa pulsante e catartico, rivolgendo il suo sguardo verso un punto cieco, in cui la visione smette di essere identificazione del Male contro il Bene (come succede per esempio per pur ottimo “polar” francesi) ma si riprende il primato dell’oggettività del mistero che insita da sempre nel cinema. E, nonostante la complessità di questo cinema, gli americano paiono averlo capito.
Altra eccellente notizia, per noi abruzzesi destinati alle cronache solo per le perdite progressive e continue (di posti di lavoro, credibilità e sindaci), è quella che riguarda la prima su “Rai3” alle 1,15, di “Go!” un documentario in sei episodi che racconta il viaggio nel continente dei grandi miti e del sogno americano della autrice, la giovane videomaker pescarese Alice Lizza che ricerca e scopre on the road, il senso delle interazioni, della libera espressione e del continuo andare, confrontando la beat e la byte generation, con la voglia di scoprire ciò che è rimasto dello spirito e della ribellione beatnick nel pensiero dei nativi digitali.
Il documentario, di grande qualità anche narrativa, è un progetto di Rai Educational e potrà essere apprezzato anche su Rai Scuola, in un orari più decenti, sabato 18, alle 17 e alle 21 il sabato, costato un anno intero di lavoro e che risponde alla domanda di cosa sia rimasto dello spirito ribelle statunitense degli anni cinquanta e sessanta, attraverso un viaggio su vecchie strade, highway, stati e metropoli, scon interviste, riferimenti al passato e alla letteratura, citazioni, immagini d’archivio, poesie e tracce di storia ed un racconto che si intreccia alle voci, quella di David Fenton, pr e fotografo newyorkese che immortalò Jimi Hendrix, Black panthers e Allen Ginsberg,; quella di Antonio Monda, giornalista di Repubblica e docente alla NYUniversity, con il suo sogno americano ancora intatto e ancora quella di alcuni studiosi e poeti degli anni 50, fino a Bob Branaman, artista losangelino che sposò la beat generation tra abuso di droghe, emancipazione sessuale e arte visiva, fino ad Howard Reyngold, uno dei primi tecnofili degli ‘80 che coniò il termine comunità virtuali e ai Navaho, tribù nativa americana che sopravvive nelle riserve sacre.
Speriamo di poter avere l’Autrice (ed il suo documentario), in estate, al Festival Roseto Opera Prima ed intanto esultiamo, ancora una volta da abruzzesi e aquilani, per la presentazione, sabato 18 al Campidoglio, con la presenza del sindaco Marino, del magnifico volume “L’arte della cinematografia”, scritto da Vittorio Storaro insieme a Lorenzo Codelli (collaboratore della rivista “Positif” e del Festival di Cannes) e Bob Fisher ( giornalista membro onorario dell’ American Society of Cinematographers), per sottolineare la fondamentale importanza dell’autore della fotografia cinematografica nella storia del cinema e con un contributo anche del “nostro” Gabriele Lucci, già Direttore Generale e Presidente Onorario (sino al 20010) della Accademia della Immagine, fondatore e direttore artistico, dal 2000 al 2007, dell’Istituto Cinematografico dell’Aquila, direttore della collana editoriale “I Mestieri del Cinema” (Nestor Almendros, direttore della fotografia, e Costumisti e scenografi del cinema italiano, 2 voll.), curatore per Electa della trilogia di Vittorio Storaro, Scrivere con la luce e di un volume su Dante Ferretti (2004), oltre che della fortunata collana di Dizionari del Cinema, divisi per genere, autore, nel 2012, per l’editore Tracce, di “Stazione di Transito”, presentato a New York due anni fa, in occasione del mese della Cultura italiana (Italian Heritage & Culture Month), un solido dramma che ci rivela un mondo corrotto e crudele, quello in cui ricchi produttori che ricattano giovani talenti, per cui è necessaria una lodevole, nobile ribellione. Un potente dramma che è molto piaciuto al grande aquilano Mario Fratti che, con Plinio Perilli, definisce inusitato bar-teatro, o psicodramma rock (con golose venature ironiche, a tratti vere e proprie, bieche sprezzature sarcastiche), che resta in fondo il bilancio in progress di un’intera generazione: la mia per l’appunto, con molti fallimenti e debolezze e rabbia, ancora tutte da comprendere appieno e sanare. “L’arte della cinematograia”, edito da Skira editore, è illustrato da centocinquanta immagini fotografiche in doppia visione, di altissima qualità, rielaborate appositamente dal premio Oscar Vittorio Storaro, accompagnato da un complesso DVD con immagini in movimento tratte dai lavori degli artisti in catalogo; una vera e propria carrellata, quasi un catalogo ragionato, che partendo dal 1910 arriva ai giorni nostri disegnando oltre centocinquanta profili di Cinematographers in un secolo di cinema., in un progetto editoriale ardito e complesso, che rappresenta un omaggio all’opera di tutti i principali autori della fotografia cinematografia mondiale.
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