(di Carlo Di Stanislao) – Il premio Fondazione Campiello è stato consegnato a Dacia Maraini, mentre i premi per i giovani (“Opera prima” sono andati a Roberto Andò per ”Il Trono vuoto” (Bompiani), per la sezione degli italiani in Europa e alla diciannovenne Martina Evangelista per il racconto “Forbici”: una storia minimalista scritta con garbo e grande fantasia.
Per quanto riguarda la competizione maggiore, la 5°° edizione del premio promosso e organizzato dagli Industriali del Veneto, appena sotto lo “Strega” e certo pari al “Bagutta” (in piedi dal 1926 e, dal 2005, con presidenza di giuria di Isabella Bossi Fedrigotti) e il “Bancarella” (che, lo scorso luglio, ha celebrato, con la vittoria a “La voce del destino di Marco Buticchi, la sua 60° edizione); è andato a Carmine Abate, con il libro ‘La collina del Vento’ (Mondadori), che ha battuto con largo scarto, Francesca Melandri con ‘Più alto del mare’ (Rizzoli); Marcello Fois con ‘Nel tempo di mezzo’ ; Marco Missiroli con ‘Il senso dell’elefante’ (Guanda) e Giovanni Montanaro con ‘Tutti i colori del mondo’ (Feltrinelli).
La serata in diretta tv, ieri sera su RAI1, con un foyer del teatro La Fenice, ingombro di big dell’industria in smoking perfetti ed eleganti abiti da sera e con, fra gli altri, Paolo Mieli, presidente di Rcs Libri, Mario Moretti Polegato, patron di Geox, Paolo Scaroni, amministratore delegato di Eni, il critico Philippe Daverio e la scrittrice Michela Murgia; è stata presentata dal solito Bruno Vespa (ormai vero e proprio padrone di casa) e da Gigliola Cinquetti ed Anna Valle, la prima in abito rosso fuoco e con piglio da vera prima donna, la seconda in un più dimesso lungo bianco che, nonostante le spalline, faceva un po’ troppo “debuttante” o “educanda”.
Come hanno scritto stamane i commentatori, la vera protagonista è stata la rosso-bardata Cinquetti, gloriosa cantante del passato, sopravvissuta grazia ai diritti di qualche indimenticato evergreen, che è riuscita a insediarsi nella tv di stato, in una veste a metà tra la cerimoniera e l’ospite d’onore e che ieri è stata anche in grado di rubare la scene a Bruno Vespa, con una verbosità che non nascondeva un certo compiacimento e alcune citazioni colte, da Manzoni a Goethe.
Molto più discreta (ma proprio per questo sotto tono), Anna Valle, prototipo di una televisione non urlata o ipertrofica , che è ormai sempre più al tramonto.
Si sono punzecchiati più volte ed in modo non del tutto garbato Vespa e la Cinquetti e poi hanno preso di mira la cantante Arisa, ospite della serata, che però, come sempre, ha risposto a tono contro ogni ipocrisia di circostanza.
In ultimo, dopo la canzone, si trattava di promuoverne il libro di Arisa: “Il paradiso non è un granché”, ma, curiosamente, la Cinquetti ne ha storpiato il titolo presentandolo come “Il paradiso può attendere” e, avvertita dell’errore, ha cercato di sembrare spiritosa affermando che la protagonista della storia si chiama Marisa e che, quindi, non c’è molta differenza; al che Arisa, con garbo ha replicato, “No no, fa la differenza”, con negli occhi quella autentica sincerità ormai rara nella cose della nostra televisione.
Fra l’altro raccomanderei alla Cinquetti di leggerlo questo bell’esordio letterario di Arisa, uscito a febbraio per la Mondadori, autobiografia nemmeno tanto mascherata dal cambio fra Marisa ed Arisa, critica amara di un mondo, quello dello spettacolo, fatto di delusioni, cinismi e solitudini, scritto con quella freschezza e quella ironia che l’hanno resa celebre e che certo la Cinquetti non ha forse mai davvero possedute., neanche quanto cantava di non avere l’età.
Un romanzo in cui Arisa dimostra buone capacità di penetrazione psicologica e un giusto distacco dal successo e le cui parole (e pensieri) potrebbero tornare utili a quella che, solo poco tempo fa, ai tempi di Pronto Elisir, non voleva più sentirsi nominare con “Non ho l’età?”; ma che ora, nel pieno degli anni, non possiede niente altro che questo.
Tornado ai premi, bellissima la definizione che Dacia Maraini, intelligente e compita come sempre, ha dato della letteratura: la letteratura è testimonianza, aggiungendo che sebbene non possa cambiare il mondo, di certo la letteratura ci dice verso dove andiamo e, in quest’ottica, non è certo in crisi come l’economia.
Quanto al romanzo vincitore, “La collina del vento”, racconta di una famiglia calabrese, che da generazioni combatte per restare al proprio posto, senza mai piegarsi ai soprusi dei latifondisti, del fascismo e dei mafiosi. Una famiglia di cui Abate ci racconta la storia, passando di padre in figlio, attraverso un secolo.
La prosa, ricca e impreziosita da espressioni dialettali , ci sospinge in un costante andirivieni fra la tradizione di un popolo e il contesto più ampio, l’Italia, in cui si colloca.
Singolare il senso che acquista, di pagina in pagina, lo scavare: non solo nella terra calabrese, non solo nei segreti della collina e della famiglia Arcuri, ma anche nella vita e nel carattere dei singoli personaggi, costretti a entrare in contatto con le loro più profonde convinzioni, pena l’impossibilità di restare in piedi dinanzi a venti contrari.
A me è molto piaciuto anche “Il senso de l’elefante” del giovane Marco Missiroli, un romanzo che si presenta già dalle prime pagine avvolgente e fascinoso e che, prendendo le distanze da certo stile narrativo che fa del “togliere”, dei “vuoti” lo stigma caratteristico, ci abitua, da subito, ai “pieni” sia nelle descrizioni psicologiche, sia in quelle ambientali.
Nella simbologia tibetana l’elefante rappresenta l’essere che sostiene l’universo con forza e generosa abnegazione e sappiamo quanto intensi siano i rapporti che uniscono tutti i membri di un branco di elefanti, indipendentemente dal genere e dalla posizione gerarchica.
Questo viene in mente leggendo questo romanzo della Guna, scritto con una lingua, moderna e chiarissima, ma che non rinuncia tuttavia a ricollegarsi alle esperienze della letteratura che siamo abituati a definire classica, aprendosi a inserti, a mio vedere, preziosissimi di dialetto (come in Abate, in Camilleri e, nel passato, Gadda e Pasolini) che si integrano perfettamente nell’ordito della narrazione.
Molto bello infine “Forbici”, della appena più che maggiorenne ravennate Martina Evangelisti, i finale per il secondo anno, che racconta di un uomo e una donna che si sono amati da ragazzi e si rincontrano, lei fa l’attrice e vive in una grande città con il nuovo fidanzato fotografo, lui è rimasto in provincia, con il suo nuovo amore, una donna che aspetta un figlio, anche se lui questo lo ignora.
Mentre parlano, si accorgono che l’amore che li ha uniti brucia ancora nelle loro viscere e che sono rimasti ‘conficcati’ l’uno nell’altra come forbici. La nuova donna di lui guarda delle vecchie foto con la suocera e ne trova proprio una di loro.
Un racconto intenso con punte di scrittura che ‘trafiggono’.
Bello anche l’altro vincitore giovani: “Il trono vuoto di Roberto Andò”, di cui Camilleri ha scritto: “Un gran bel romanzo, soprattutto perchè si riscontra una profonda felicità nell’averlo scritto: felicità che si trasmette al lettore. Un libro godibile e nello stesso tempo – un piccolo miracolo – un romanzo impegnato, o come si usava dire una volta, un romanzo di impegno civile, che è fatto di equivoci, di persone che scompaiono e ricompaiono, di amori fugaci, di incontri, ma i cui protagonisti si occupano di una materia di cui non si parla mai nei romanzi italiani: la politica”.
Nato a Palermo nel 1959, regista di teatro, lirica e cinema, Andò vi narra del segretario del maggiore partito d’opposizione, Salvatore Oliveri, che dopo il crollo dei sondaggi e l’ennesima, violenta, contestazione, decide di scomparire e si rifugia in segreto a Parigi, in casa di un’amica che non vede da trent’anni, Danielle, una segretaria di edizione conosciuta all’epoca in cui ancora accarezzava l’idea di fare il regista.
Unici, e parziali, depositari della scomoda verità, Andrea Bottini, collaboratore di Oliveri, e Anna, la moglie dell’onorevole, in realtà continuano ad arrovellarsi sul perché della fuga e sulla possibile identità di un eventuale complice.
Bottini propone ad Anna di usare il fratello gemello di Oliveri, un filosofo geniale segnato da una depressione bipolare, come sostituto dello scomparso. Il filosofo si trasferirà a casa sua, avviando uno strano mènage e un’involontaria carriera politica.
Un affresco sull’Italia di oggi, una favola filosofica sulla politica e i misteri della vita.
Al cinema, Andò, ha curato varie sceneggiature e diverse regia. Da vedere assolutamente (sta girando a notte tarda nei palinsesti splendidi di Rai Movie) è “Sotto falso nome”, una storia ricca e avvincente, con splendida fotografia la di Maurizio Calvesi è nostalgiche musiche di Ludovico Einaudi. Il film è del 2004 è vi si racconta di Daniel Poltanski (D. Auteuil), di origine polacca, che scrive con successo romanzi gialli che firma come Serge Novak. Vive a Ginevra con la moglie italiana Nicoletta (la Scacchi) e suo figlio di primo letto Fabrizio, gli unici che conoscono la sua doppia identità. Soltanto in apparenza slegati, due avvenimenti gli scompigliano la vita e lo costringono a fare un viaggio nel proprio passato per scoprire che cosa si nasconde dietro il suo pseudonimo. Ma, i fantasmi che incontra gli sono fatali. Quegli stessi che, evidentemente, emergono con controlli sempre minori, dall’interno della Cinquietti e che si infuriano contro l’innocenza, solo perché questa dote lei non l’ha mai davvero né posseduta né compresa.
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