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Cinema a e fuori Venezia, con femminismo contraddittorio

Cinema a e fuori Venezia, con femminismo contraddittorio

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(Di Carlo Di Stanislao) A Venezia un piccolo, garbatissimo film di Uberto Pasolini, italiano che ormai vive in Inghilterra, si guadagna cinque minuti di applausi ininterrotti e conferma il talento di un regista “parco” e attento, produttore di “Full Monty”, il maggior successo commerciale inglese di tutti i tempi, passato alla regia con “Machan”, opera prima di sorprendente onestà e rigore formale, presentato nelle Giornate degli Autori di Venezia nel 2008.
Ora torna nella sezione Orizzonti, con “Still Lefe”, una comedy-drama tra fantasia e realtà, dove si racconta la storia di John May (Eddie Marsan), un piccolo, grigio, solitario travet che sembra uscito dalle pagine di Gogol passando per Watanaba, impiegato della “sezione civili” del Comune di Londra, come il protagonista di “Vivere” di Kurosawa che, naturalmente, lavorava per la municipalità di Tokio e come questo scrupoloso e preciso nel trovare, per il comune, parenti o amici dimenticati di persone morte in solitudine, senza mai riuscire a far partecipare qualcuno alla cerimonia e dunque rimanere lui solo ad assistere all’ultimo viaggio dei suoi “assistiti”.
Tanta dedizione ai morti non è però gradita ai superiori di May, perciò le sue mansioni vengono trasferite a un altro ufficio più “efficiente”, e lui è dichiarato in esubero.
Quando un ignoto vicino muore senza amici e in solitudine, May si prende a cuore il suo caso come ultimo incarico. Superando rifiuti e situazioni di stallo, percorre il paese in lungo e in largo per rintracciare la sparpagliata famiglia e gli amici dimenticati di Billy Stoke, in modo che il suo funerale non sia un’altra triste cerimonia senza nessuno.
Pasolini (nessun rapporto con Pier Paolo), ha la mano leggera in un film che altrimenti sarebbe stato plumbeo, descrive con garbo la svolta inaspettatamente romantica e tenera della vicenda, e regala una speranza a tutti noi, anche a quelli più solitari e disperati.
Tuttavia, nonostante la leggerezza del trattamento, la materia è seria, e il regista la prende di conseguenza, per dirci anche, atrocemente, che la vita è spietata, soprattutto quando non te lo aspetti.
L’autore è consapevole che il tema è rischioso e non calca mai la mano. Se da un lato alleggerisce la costruzione del film con un’ironia quasi quirky, dall’altra lavora di dettagli: foto, oggetti, frasi essenziali. Non c’è nulla di troppo, non c’è mai qualcosa fuori luogo. E John, nel suo essere impassibile e con l’andatura ingessata, pare uscito direttamente da un film di Kaurismäki.
Magnifico Eddie Marsan e bellissime le musiche di Rachel Portman. Prodotto da Rai Cinema potremo vederlo grazie a Bim e ci godremo in sala un bell’esempio di cinema intelligente e profondo, con un finale che approdasse definitivamente nella fiaba, confezionato con grazie e leggerezza.
Esce al cinema (dal 5 settembre) “La religiosa”, dal romanzo di Denis Diderot, di Guillaume Nicloux, con Isabelle Huppert e Pauline Etienne, che, nella francia del 1760, racconta di una giovane di nome Suzanne sogna di poter continuare ad assecondare il suo talento naturale per la musica e di integrarsi nel contesto sociale ma i genitori troncano ogni sua aspirazione portandola in convento per divenire suora. Insofferente alle regole della clausura, Suzanne scopre di essere il frutto illegittimo di una relazione extraconiugale della madre e cerca in tutti i modi di sciogliere i voti ma, quando l’amorevole madre superiora muore, si ritrova a subire angherie e umiliazioni da parte della sua sostituta, suor Christine (la brava Louise Bourgoin). Su richiesta, Susanne ottiene il trasferimento e approda nel convento di Saint Eutrope, dove la madre superiora (Isabelle Huppert) sviluppa per lei un’attenzione quasi morbosa e imbarazzante.
Il romanzo di Diderot era già stato portato sullo schermo nel 1968 (titolo “La monaca”) da a Jacques Rivett, ma Nicloux opta per una finale diverso e mentre Rivette fa suicidare la protagonista, Nicloux ha scelto di farla resistere a quanto subisce, di farle superare le difficoltà e di farla liberare dalla tutela della madre, in nome di un possibile futuro migliore.
Profondamente religioso, il regista francese entrò in seminario a 13 anni ed ha vissuto in prima persona i dramma raccontati da Diderot che intende, con il suo romanzo, il porsi domande sulla religione e sul libero arbitrio di coloro che “scelgono” i voti come percorso di vita.
Nicloux affronta l’argomento con un realismo appassionato in cui tutti i personaggi, buoni e cattivi, vivono la storia con la medesima intensità: le rispettive trepidazioni si specchiano l’una nell’altra, come se, a dispetto delle gerarchie, fossero poste sullo stesso  piano, rivolte ad un’unica, indefinita autorità superiore a cui devono rendere conto comunque, e in uguale misura, senza alcuna distinzione di ruolo. Ciò che le sovrasta è un’entità priva di nome, a cui è possibile attribuire diverse valenze (politica, economica, sociale, religiosa), ma che, in ogni caso, è contraria alla ragione. I suoi principi si definiscono entro normative provenienti dalla tradizione ed impermeabili all’approccio critico del secolo dei lumi. Suzanne rimane impigliata in un intreccio di cecità, che restano saldamente ancorate alle regole prestabilite ed universalmente condivise, ed attingono alla individualità soltanto lo spunto per rivedere quelle prescrizioni secondo le esigenze dell’istinto.
A tratti vi ho rivisto la figura di monaca in crisi parziale interpretato da Margherita Buy in “Fuori dal mondo”, film di Giuseppe Piccioni con Silvio Orlando, del 1999, con splendida fotografia di Luca Bigazzi ed incentrato sui temi della spiritualità, maternità e solitudine, con una serie di personaggi fragili, ma soprattutto una suora che ha ripudiato la vita civile per una precoce vocazione , insidiata dal desiderio di maternità e da una curiosità vivace verso ciò che le ruota intorno.
Ripassando a Venezia, oggi è il giorno di “L’intrepito”, film in concorso e prima commedia di Gianni Amelio, con Antonio Albanese, un ritratto tragicomico dell’Italia disastrata di oggi, attraverso la storia di un disoccupato pronto a mille mestieri, che passa da muratore a cameriere, da venditore ambulante a uomo delle pulizie pur di sopravvivere.
Dopo Cetto la Qualunque, Rodolfo e gli altri personaggi di “Qualunquemente” e “Tutto Tutto Niente Niente”, Albanese è ora chiamato ad un ruolo più duro e difficile da uno dei registi più raffinati del  nostro paese (che ha lasciato anche la Direzione del Festival di Torino, per tornare a fare il regista a tempo pieno) e che a Venezia si presenta in concorso, come anche al Festival di Toronto, con molte ambizioni e speranze.
Per la cronaca va ricordato che Amelio vinse il Leone d’Oro con il film “Così ridevano” nel 1998 e potrebbe anchefare il bis, anche se più accreditati, sulla carta, sono “Stray Dogs” e “Philomena”; il primo, del taiwanese Ming-liang Tsa, racconta di un uomo e i suoi due figli che provano a sopravvivere ai margini della moderna Taipei; del secondo con la giovane promessa del cinema scozzese Sophie Kennedy Clark, Judi Dench e Steve Coogan, abbiamo già detto.
In attesa della fine col pronunciamento della giuria presieduta da Bernardo Bertolucci ci vediamo, fuori concorso, “Ukraine is not a brothel” di Kitty Green, documentario sul movimento “Femen”, un fiume carsico che emerge lentamente, proprio come lei, l’autrice, 28 anni, australiana di madre ucraina, pian piano capace di guadagnarsi la fiducia delle attiviste condividendo con cinque di loro, per un anno, un appartamento in uno dei fatiscenti palazzoni sovietici che ingrigiscono Kiev., per poi seguirle fra proteste, denunce e arresti, finendo lei stessa più volte in manette, anche a Roma.
Le ascolta riflettere sulla loro battaglia per l’emancipazione femminile dal giogo di una società maschilista: a partire dall’Ucraina. Che, appunto, “non è un bordello” come recita uno slogan delle Femen, benché qui le giovani sembrino vedere poche alternative nel loro futuro oltre a quello di prostitute o spose di mariti prevaricatori. “Il 99% delle ucraine neanche sa cosa sia il femminismo”, dice la bellissima e biondissima Sasha. Per questo, nel Paese che non ascolta le sue donne, le Femen scelgono di mostrare il corpo per far sentire la propria voce. La nudità come strumento pacifico e mediatico: di attiviste, tra l’altro, selezionate con criteri estetici. Una strategia di marketing tanto riuscita da far piovere sul movimento donazioni da fan di mezzo mondo. Da uomini soprattutto, “perché sono loro a possedere il denaro su questo pianeta”.
Ma vi è molto di più nel documentario: man mano che la telecamera della Green diventa una presenza abituale per le Femen, questa rivela l’ombra ingombrante di un uomo nelle loro vite. All’inizio, Viktor Svyatskiy, ideatore ed ideologo del movimento, è solo una voce che impartisce ordini via Skype. Come alla vigilia della protesta contro la Uefa, “complice” nel promuovere il turismo sessuale in Ucraina durante l’ultimo campionato europeo di calcio: “Dite ad Alexandra che non avrà i suoi 200 dollari se non farà bene la performance”. Finché è lui stesso, il padre (non la madre!) del femminismo pop dell’Est ad ammettere di fronte alla telecamera: “Gli uomini fanno di tutto per il sesso: io ho creato il gruppo per avere delle donne”. E s’inalbera: “Spero che grazie al mio comportamento patriarcale loro rifiutino quel sistema che rappresento”.
Ma di fatto, nelle immagini, non è così e, come nel sogno di molti maschi, anche sbuffando, le sedicenti femministe, di fronte alle disposizioni di Viktor si mettono in riga, come colpite da una specie di sindrome di Stoccolma.
E svelano, quasi senza rendersi conto della contraddizione: “Senza un uomo dietro non saremmo mai venute fuori”. Paradossi di un femminismo nato da un copyright sbagliato, stramberia di un movimento incapace di liberarsi della cultura maschilista in cui è cresciuto. Ma non per questo destinato al suicidio, almeno non a Parigi. È lì che, dopo le pressioni subite dalle forze di sicurezza, fugge Inna Shevchenko, la cattiva ragazza che proverà ad emanciparsi davvero.
Comunque, attesa per la proiezione, al Lido, una delegazione del gruppo di protesta, che ha promesso di scendere in piazza a seno nudo e sarà certamente un bel vedere, più applaudito di Lech Walesa, il fondatore di Solidarnosc, protagonista del film-omaggio che il conterraneo Andrzej Wajda gli ha dedicato e delll’ex segretario di Stato alla Difesa Usa, Donald Rumsfeld, intervenuto per sostenere un documentario di Errol Morris.

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