(Di Carlo Di Stanislao) Viaggio nel narcotraffico del sempre vivace Ridley Scott, con un cast eccezionale composto da Michael Fassbender, Penelope Cruz, Brad Pitt, Javier Bardem e Cameron Diaz, scritto dal vincitore del Premio Pulitzer Cormac McCarthy (, autore della sceneggiatura di “Non è un paese per vecchi”) “The Counselor – Il procuratore” è uscito il 16 gennaio ed è la storia di un lanciatissimo avvocato che vede il suo successo e la sua vita andare progressivamente in pezzi quando, per curiosità e presunzione di poterne uscire quando vuole, entra nel mondo della droga. Protagonista è Michael Fassbender, in cerca di liquidi dopo aver chiesto alla sua fidanzata di sposarlo e che accetta la proposta di un conoscente legato alla malavita (Javier Bardem) di portare 20 milioni di dollari di cocaina dal Messico negli Stati Uniti. Ad aiutarlo ci sarà un poco di buono interpretato da Brad Pitt. Il film in generale non è piaciuto alla critica per via della trama tipica ai limiti dell’incomprensibile, che invece, secondo me è la forza stessa dell’opera. Sicuramente si tratta di un film d’atmosfera, diverso dal solito, girato in maniera ricercata e con dialoghi letterari un po’ astrusi e prolissi, ma accattivanti.
Ed altrettanto sicuramente non si tratta tanto di un racconto tetro sul commercio di droga quanto sui terribili effetti collaterali dell’avidità. Più che alla concatenazione degli eventi, piena di oscuri sottintesi, l’attenzione è rivolta all’universo morale dei personaggi che popolano il film, criminali che filosofeggiano su grandi temi come la vita, l’amore, il denaro e la morte, elargendo ammonimenti da guru consumati. Restano impressi la loro estetica stravagante, il vivido sentenziare e alcune scene paradossali che li riguardano, come la decapitazione di un motociclista o l’amplesso col parabrezza di una Ferrari. Ma il punto è che, mentre i signori della malavita gestiscono il loro mondo sanguinario con distacco emotivo e istinto animale, l’avvocato è ancora un essere umano, seppur accecato dalla sete di denaro, e ha nei propri affetti il punto debole che lo porterà a vivere, anziché il paradiso artificiale e lussuoso prefiguratosi, l’inferno in Terra. Il problema del protagonista è che si è illuso che tutto abbia un prezzo in termini di denaro, ma nel sistema efferato in cui si è ostinato a entrare, quando una cosa va storta, le conseguenze si pagano con ben altro. La regia rende meravigliosamente la desolazione geografica e spirituale in cui queste vite galleggiano tra deserto e cielo. Il film è pieno di divagazioni simboliche e di esagerazioni, ma l’orrore e la violenza sono drammaticamente credibili e la tensione densa.
Una parte degli spettatori sarà forse infastidita dall’essere costantemente impegnata nel tentativo, frustrante perché vano, di afferrare alcune nozioni sulla vicenda che in realtà vengono omesse. Poco importa, il finale è chiaro pur non mostrando troppo.
Arricciano il naso, sempre i critici, per i premi assegnati al Sundance Film Festival che si è chiuso il 23 gennaio, con, al drammatico “Wiplash” di Damien Chazell il premio della giuria e quello del pubblico e a “Rich Hill” di Talal Derk il premio per il miglior documentario.
Anche nel caso di “Wiplash”, che racconta di un’aspirante batterista jazz (Miles Teller) che aspira alla grandezza e che entra in conflitto con il suo severo mentore (JK Simmons) per cui prova tanta ammirazione e soggezione quanto odio per la sua spietatezza e mancanza di umanità; si è parlato di storia involuta e a tratti oscura, qualità che evidentemente non piace ai cosiddetti intelligentoni che vorrebbero tutto chiaro e definito.
Non molto apprezzato neanche “Rih Hill” che è ambientato in una cittadina rurale americana, in cui alcuni adolescenti devono affrontare scelte strazianti: trovare conforto nel più fragile dei legami familiari o sperare in un futuro che esuli da quel luogo.
Toni e temi e modi narrativi di questi film si ritrovano, con originali scelte autorali, nell’italiano “Metto quando voglio”, diretto dal giovane Sydney Sibilia, che a 32 anni ha tutto il diritto di fregiarsi del titolo di giovane autore, da lui scritto con Valerio Attanasio e Andrea Garello, un esordio folgorante con una pellicola divertente e intelligente, la cui premessa è solo in apparenza assurda, visto che si prende spunto da un articolo di cronaca su due laureati in filosofia impiegati come netturbini a Roma. In un paese in cui intelligenza, cultura e meritocrazia diventano paradossalmente handicap invece di vantaggi, un brillante ricercatore universitario della facoltà di Chimica, rimasto senza contratto per le solite manfrine, esasperato da una vita sempre in bilico e da una fidanzata che gli chiede un po’ più di concretezza (fosse solo la certezza di poter pagare le rate del condominio), ricorre all’aiuto di 6 geniali laureati in altre discipline, tutti impegnati in lavori umili e ormai rassegnati, per mettere su una banda di spacciatori di una droga “legale” di sua creazione.Parte da qui una girandola di situazioni che da un lato strizza l’occhio al cinema e alla tv americana e non solo: se i riferimenti immediati sono quelli a The Big Bang Theory e ai gangster movies di Tarantino e Guy Ritchie, con una spruzzata del venerato Breaking Bad, non ci si dimentica la lezione di quella grande commedia all’italiana – spesso, ma non qui, citata a sproposito – che trasformava i suoi amabili pezzenti in aspiranti banditi. Bravissimi tutti gli interpreti: il trascinante capobanda Edoardo Leo,il lunare Paolo Calabresi, l’irresistibile coppia di latinisti di Valerio Aprea, Lorenzo Lavia, l’aspirante sfasciacarrozze Pietro Sermonti, l’esilarante Stefano Fresi e lo squinternato economista di Libero De Rienzo, senza dimenticare il veterano Sergio Solli nel ruolo del viscido barone universitario e lo sfigurato malavitoso di Neri Marcoré. Ruolo limitato ma splendida performance per Valeria Solarino in una storia di maschi scervellati in cui è l’unica ad avere una coscienza.
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