“In questo mondo non vi sono che due tragedie: una è causata dal non ottenere ciò che si desidera, l’altra dall’ottenerlo. Quest’ultima è la peggiore, la vera tragedia”
Oscar Wilde
“Essere completamente onesti con se stessi è un buon esercizio”
Sigmund Freud
(di Carlo Di Stanislao) – Il 25 giugno scorso Sulmona gli ha dedicato il Museo Regionale dell’Emigrante, ma per molti, troppi anni, egli è stato completamente ignorato. Giunto in America a 14 anni, nel 1910, semi-analfabeta, Pascal D’Angelo, nativo di Introdocqua, non solo imparò a leggere e scrivere in inglese, ma produsse una serie di libri sulla delusione degli immigrati in America: una nazione dalle leggi durissime, ma con un magnetismo irresistibilmente accattivante. La sua produzione letteraria, riconosciuta postuma come apripista della cosiddetta “letteratura di migrazione”, fu sempre lontana dalla malizia e dalle mafie che si andavano sviluppando negli Stati Uniti ed il suo principale interesse non fu mai economico, bensì umano, culturale, linguistico. La sua curiosità era rivolta alla diversità fonetica della lingua inglese ed alla differente dimensione esistenziale del nuovo Continente, contrariamente a quanto facevano gli emigranti suoi connazionali, a cui fu accomunato solo dalle amare vicissitudini di sfruttamento e disillusione. Se costoro, infatti, di fronte alla frenetica e destabilizzante realtà urbana, reagivano chiudendosi nel gruppo e conservando le antiche abitudini col fine unico di far soldi da investire in paese, D’Angelo invece si aprì all’esperienza umana ed esistenziale, scoprendo, al culmine del suo sacrificio fisico e psicologico, di essere poeta. Nel 1915, i compaesani, ormai allo stremo delle forze (si era in piena guerra mondiale e, negli USA, in un momento di grave crisi economica), si lasciarono attrarre dal miraggio di un lavoro in West Virginia, procurato loro da un faccendiere senza scrupoli. Fu, questa, la più massacrante esperienza di lavoro, finita con la morte di due compagni, il grave ferimento a una mano di Pascal (privo di assistenza medica) ed il triste ritorno a Brooklyn senza paga, perché il padrone, dopo aver sfruttato gli operai fino all’inverosimile, aveva dichiarato bancarotta. Nel 1919 abbandonò il lavoro di operaio per dedicarsi alla scrittura a tempo pieno, l’unica attività da cui si sentita soddisfatto: “Quando scende la notte e il lavoro si ferma, badili e picconi restano muti e la mia opera è perduta, perduta per sempre. Se però scrivo dei bei versi, allora quando la notte scende e io poso la penna, la mia opera non andrà perduta. Resterà qui, dove oggi voi potete leggerla… Invece nessuno né oggi né domani leggerà mai quello che ho fatto col badile”. Per queste caratteristiche, la sua produzione potrebbe appartenere al romanzo di formazione, una particolare tipologia del genere narrativo tipica della classe borghese e liberale del Settecento, in cui si descrive il processo di maturazione di un giovane e il suo inserimento nella società: in questo caso, la maturazione, narrata nelle modalità dell’autobiografia, si tradusse con la promozione non economico-sociale, ma poetico-letteraria. Cinque anni dopo, nel 1924, nacque la sua opera maggiore, concepita e stilata con una purezza stilistica impressionante ed un uso straordinariamente nitido dell’inglese, permeata di un innato umorismo ed una fiduciosa speranza in un futuro migliore. Son of Italy, the autobiography of Pascal D’Angelo, conduce il lettore attraverso le vicende quotidiane dell’emigrante povero e virtuoso, fino al pubblico riconoscimento del suo talento. Il capolavoro, edito dall’editrice Macmillan di New York e prefato da Van Doren, fu il primo romanzo in inglese di un emigrato italiano sbarcato in America senza conoscere l’inglese e rappresentò il documento autobiografico più vivido e lacerante dell’esperienza migratoria degli inizi del Novecento mai scritto da un italiano negli Stati Uniti, come attestarono le recensioni uscite sul Boston Transcript (6 dicembre 1924), sul Saturday Review of Literature (27 dicembre 1924), sul New York Times Book Review (4 gennaio 1925). Giunse un po’ di fama, ma pochissimo denaro, per cui il poeta del piccone e della pala, visse e morì poverissimo, cullando fino alla fine la speranza di un autentico trionfo. E, per molti anni, fino all’inizio di questo millennio, è stato sconosciuto anche in Patria: non solo in Italia o in Abruzzo, ma nello stesso paese natale che ora, però, gli ha dedicato un premio internazionale, assegnato il 28 giugno, ad Alberto Bevilacqua per il 2011. Dal 2002, hanno d’inizio, il premio è stato assegnato, fra gli altri a: Walter Veltroni, Dacia Maraini, Corrado Augias e Maria Luisa Spaziani. Il premio, come anche il museo appena inaugurata a Sulmona, rappresentano occasioni per dibattere e riflettere sul tema sempre attuale dell’emigrazione, ricordando alle giovani generazioni che la nostra fu sempre terra di emigranti, che a partire dal dopo guerra abbandonarono le loro case e spesso anche le loro famiglie per una terra sconosciuta. Oggi, da noi, si definisce “migrante”, la letteratura, in lingua italiana, prodotta da scrittori stranieri immigrati nel nostro Paese. Queste opere rappresentano un universo a sé stante nel panorama letterario nazionale, principalmente in virtù di una sorta di reciprocità tra due culture diverse che trovano un punto d’incontro, un’integrazione, pur conservando la propria identità specifica. Rileggere Pascal D’Angelo, significa soprattutto riflettere sul fatto che l’ Italia, da terra di emigranti per quasi un secolo è divenuta in questi anni terra di immigrazione , che vede ora la presenza di una grande varietà di persone provenienti da culture ed etnie diverse, che hanno scelto proprio il nostro Paese come luogo in cui vivere, come casa o come “rifugio” e che hanno pensato di utilizzare la nostra lingua per esprimersi, trasformandola così in un ponte comunicativo. In questo modo alla scrittura si associa una necessità comunicativa, che oltre ad essere il frutto di un’esigenza interiore, tiene conto anche di contingenze esterne, come quella di vivere in un altro Paese. Per questo motivo molti scrittori stranieri si sono resi protagonisti di questa nuova letteratura, scegliendo di scrivere le loro opere nella lingua del Paese che li ha ospitati. Il 20 aprile del 2010, è stata una conferenza su Pascal D’Angelo e la letteratura migrane che ha aperto la rassegna, voluta dal Ministero dei Beni Culturali, realizzate dal Museo Basilio Cascella di Pescara nell’ambito della XII edizione della Settimana nazionale della cultura, a cui hanno fatto seguito incontri su Tagore ed Herman Hesse, tutti autori profondamente e poeticamente concentrati sull’uomo ed il superamento di conflitti, diffidenze ed emarginazioni a farmi scoprire il grande scrittore abrruzzse. Fu in quella occasione che Germano D’Aurelio, studioso appassionato delle esperienze migranti abruzzesi, il presidente dell’Associazione Abruzzesi nel Mondo, Nicola D’Orazio, oltre alla proiezione del cd fotografico “Nel nido dell’Aquila ferita” del fotoreporter italo-americano Luciano Borsari, mi fecero capire il percorso di un Autore che ha reso grande, poetico omaggio all’uomo, capace di uscire dalle sacche della diffidenza, per accedere ad un universo fatto di benevola speranza e, soprattutto, di vera accoglienza. Curato da mani inesperte, D?angelo morì a soli 38 anni , lasciando agli amici e agli ammiratori il privilegio di organizzare il funerale la sepoltura. In suo onore gli amici fondarono, negli USA, la D’Angelo Society che per anni conferì la “medaglia D’Angelo” per la migliore poesia scritta da giovani italo-americani. E, anche se con ritardo, ora Sulmona, Introdacqua e l’Abruzzo, lo celebrano in vario modo, per mantenere viva la fiamma del ricordo di un uomo che scelse un’esistenza umile per poter vivere il suo sogno di poeta, incontro agli altri uomini.
(139)