(di Carlo Di Stanislao) – A parte “Skyfall” vi sono almeno altri cinque (forse più) film da vedere al cinema in questi giorni. In primo luogo il documentario “Woody”: 113 minuti di vero amore, diretti da Robert B. Weide, documentarista con nomination agli Oscar nel ’99 per Lenny Bruce: Swear to Tell the Truth, che promette di far conoscere tutto ciò che avremmo voluto sapere senza osare chiederlo sul regista USA più amato di oggi: Woody Allen e che, soprattutto, non tradisce la promessa.
Presentato fuori concorso (e fra molti applausi) all’ultimo Cannes (a cui Allen era assente), il docu-film approfondisce in modo autentico i natali di Allen con foto del regista neonato e tragicomica crisi esistenziale che lo colpì già da bambino: la paura della morte, tema portante di tutto il suo cinema e del sul pessimismo in salsa ironica, distillato con sagacia in molte sue pellicole. Si parte dall’infanzia agli esordi come autore per la tv, usando una macchina da scrivere che ancor oggi non abbandona, fino ai sui primi film completamente comici (Prendi i soldi e scappa, Il dittatore dello stato libero di Bananas) per poi passare alla sua produzione più profonda e completa come Io e Annie e Manhattan con un salto successivo un po’ troppo rapido e meno ricco di informazioni negli ultimi anni, compresi Match Point, Midnight in Paris, oscar per la miglior sceneggiatura nel 2012, e To Rome with love. Comunque le due ore passano veloci, con un viaggio piacevole ed intelligente, con interviste tutte interessanti, soprattutto quelle a Martin Scorsese, che esprime la sua stima nei confronti del talentuoso collega; Larry Davis, che confessa di aver sempre voluto lavorare con lui; Diane Keaton che parla della loro relazione e della loro collaborazione sul set e Scarlett Johansson, che ricorda l’estate indimenticabile in cui venne girato “Match Point”. E molte sono le parti che riguardano proprio lui, il comico ed autore americano che, si è detto, ha portato Camus alla comprensione di tutti, sposando, nel cinema, i fratelli Marx a Fellini, con ampie spiegazioni sulle fasi del suo del suo lavoro: dalla scrittura, eseguita rigorosamente con la macchina da scrivere, alla lavorazione sul set – il documentario mostra scene di Allen al lavoro sul set di “Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni” – e infine alla promozione dei film presso vari eventi.
Da vedere poi, prima della scomparsa, perché è in giro da quasi un mese, “il matrimonio che vorrei”, che mescolando assieme il cowboy texano Tommy Lee Jones, il buffo Steve Carell e la sempre stupenda Maryl Streep, porta il regista di “il diavolo veste Prada”, in barba a una Hollywood siliconata e gerontofoba e in linea con le cosiddette dramedy sull’amore a sessant’anni, a girare una commedia su un matrimonio trentennale in crisi e un pizzico di terapia di coppia.
Un film delicato come pochi (di recente) ed insieme un’opera attuale, che ribadisce l’importanza dei piccoli gesti come unico possibile antidoto alla mancanza d’attenzione.
E poi un film dove (vivaddio) ci si diverte, molto e continuamente, grazie a una serie di scene intelligenti ed esilaranti, scritte bene e recitate meglio.
Dicevamo che il regista, David Frankel, torna del tutto convincente dopo gli alquanto deludenti “Io & Marley” (2008) e “Un anno da leoni” (2011).
Arriva poi in sala “Venuto al mondo”, che Castellitto cava dal romanzo della moglie Margaret Mazzantini e che riporta protagonista (come in “Non ti muovere”) la splendida Penelope Cruz, che si reca col nome di Gemma si Sarajevo con suo figlio Pietro, per assistere a una mostra in memoria delle vittime dell’assedio, che include le fotografie del padre del ragazzo. Diciannove anni prima, Gemma lasciò la città in pieno conflitto con Pietro appena nato, lasciandosi alle spalle suo marito Diego, che non avrebbe mai più rivisto, e l’improvvisata famiglia sopravvissuta all’assedio: Gojko, l’irriverente poeta bosniaco, Aska, la ribelle ragazza musulmana e la piccola Sebina. L’intenso amore e la felicità tra Diego e Gemma non erano abbastanza per colmare l’impossibilità di Gemma a concepire figli. Nella Sarajevo distrutta dalla guerra, i due trovarono una possibile surrogata, Aska. Gemma spinse Diego tra le sue braccia per poi essere sopraffatta dal senso di colpa e dalla gelosia. Ora una verità attende Gemma a Sarajevo, che la costringe ad affrontare la profondità della sua perdita, il vero orrore della guerra e il potere di redenzione dell’amore.
Nel cast del film, che trasporta magnificamente in immagini il difficile romanzo della Mazzantini, anche Emle Hirsch (“Into the Wild, Milk”), Jane Birkin e Luca De Filippo.
Come ha scritto Fulvia Caprara (di ottimo sangue, naturalmente) su La Stampa, il film (nelle sale dall’8 in 350 copie), è “un’avventura uman”» e insieme un’impresa di famiglia: perché vi compare anche Pietro, figlio di Castellito e della Mazzantini e lo fa col suo nome e nel ruolo di un figlio.
“Il primo giorno delle riprese – racconta Castellitto junior – mi sentivo come nel primo giorno delle elementari. Ho percepito subito di non stare in un film, ma di trovarmi al centro di qualcosa che era la consacrazione del sodalizio tra i miei”.
Il libro, ha detto ancora Pietro, “non l’avevo letto, l’ho fatto strada facendo, e non ho dovuto recitare l’ingenuità del personaggio perchè anche io la scoprivo man mano che si andava avanti”.
Ultimo film da raccomandare è il franco-belga-lussemburghese “Un’estate da giganti”, di Bouli Lanners, una pellicola ispirata che parla di quella difficile età che è l’adolescenza, durante la quale l’individuo acquisisce (o dovrebbe acquisire) le competenze e i requisiti necessari per assumere le responsabilità di adulto.
Racconto di formazione di Bouli Lanners, trionfatore della Quinzaine des Rèalisateurs al Festival di Cannes, in bilico tra lo spirito d’avventura del romanzo Huckleberry Finn di Mark Twain e i ragazzi di “Stand by me- Racconto di un’estate” di Rob Reiner, il film, con una colonna sonora nu-folk mozzafiato dei The Bony King of Nowhere, che si sposa bene con le riprese di quegli incantevoli paesaggi fiamminghi, racconta della estate di formazione dei due fratelli Zak e Seth, che insieme al loro amico Dany, immersi nella campagna belga, tra fitti boschi, campi di grano e fiumi, vivono intense esperienze, costretti a cavarsela solo con le proprie forze e senza un soldo, a causa dell’assenza e della non curanza costante dei genitori.
Grazie anche, oltre che a quanto già detto, alla splendida fotografia di Jean-Paul De Zaeytijd (premio per la migliore fotografia al Festival di Namur) “Un’estate da giganti” risulta una pellicola fresca, gradevole, in grado di parlare di argomenti toccanti e seri attraverso la lente dell’umorismo.
Per chiudere raccomando particolarmente “Reality” di Matteo Garrone, trionfatore di Cannes, dove Pirandello si sposta con Orwell ed introduce Edoardo, con una colonna sonora di sapore burtoniano che è un valore aggiunto di un film che un incubo costruito su continue attese, su’stazioni’ come quelle della Via Crucis della Settimana Santa, cerimonia che finisce con l’acquisire un valore simbolico ed essere la chiave di lettura del film più capace dio descrivere il degrado non solo economico o culturale de L’Italia di oggi.
Un film, questo ultimo di Garrone, Il che riflette (e fa riflettere) in maniera tragicomica sul fenomeno dei reality show e del meccanismo perverso che possono innescare nella mente dei partecipanti. Un film che suscita nello spettatore quel riso amaro che spunta davanti alle storture di una società che porta a far cullare alle persone sogni obbiettivamente irrealizzabili salvo poi lasciarli soli nell’abisso della disperazione se non della depressione quando invece per vivere bene si avrebbe tutto a portata di mano (il protagonista ha infatti il suo lavoro, la sua casa e una famiglia che gli vuole bene).
Questi i film soprattutto da vedere ma, se avanzate di tempo e denaro e volete divertirvi come bambini, non mancate “L’era glaciale 4 – Continenti alla deriva” di Steve Martino, dove il mammut Manny è alle prese con l’adolescenza della figlia Pesca, attratta da amicizie superficiali se non pericolose, quando il ghiaccio sotto le zampe comincia a tremare fino a rompersi. Il film, al solito, fra le “zolle” narrative, inserisce gustosi mini cortometraggi in puro stile slapstick, che hanno per protagonista Scrat, all’inseguimento cronico della ghianda che rotola, scivola, s’inabissa o svetta fuori del pianeta.
Infine, per cinefili che vogliono vedere Oliver Stone alle prese con una storia alla Tarantino, “Le belve”, con Blake Lively, John Travolta, Aaron Johnson, Salma Hayek e Emile Hirsch, ambientato a cavallo della frontiera delle frontiere, con un’estetica acida che lo permea da cima a fondo e, pur con qualche eccesso di maniera, ben racconta il clima da paradiso perduto e da avventura folle e schizzata che contraddistingue l’Americva profonda di oggi.
E come non accadeva nel cinema di Stone da un po’ di tempo a questa parte, inoltre, la violenza di Savages (titolo originale) è massima, oltre che sfortunatamente plausibile, cosa che lo allontana dall’essere un prodotto per tutti i gusti, ma certamente adatto per gusti davvero ben educati.
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