(Di Carlo Di Stanislao) Sia “Lincoln” che “Les Miserables”, ci riportano al cinema come spettacolo grandioso ed affascinante, curato nei minimi particolari e con budget milionari, capace di emozionare per l’intera durata della proiezione con varie esclamazioni di meraviglia.
Steven Spielberg con Daniel Day-Lewis, Sally Fields, Joseph Gordon-Levitt e Tommy Lee Jones, ci racconta la Guerra di Seccessione non più con la patina del romanticismo suddita tutto crinoline e dispetti amorosi, ma con la forza di un autore che sa fa fare spettacolo e politica e che non deve ricorrere a carneficine nel fango, con una distesa di cadaveri e il presidente ci cavalca in mezzo, per parlare di un grande personaggio che la politica la sapeva fare, superando ostacoli e difficoltà non meno gravi di quelle di oggi.
Monito elegante e bellissimo per i politici di oggi che, oltre a provvedere a se stessi la politica non la sanno fare, il film ha il suo punto di forza maggiore nei dialoghi e nello strepitoso Daniel Day-Lewis a cui l’Oscar dovrebbe essere assegnato di diritto, per manifesta superiorità.
Non si tratta quindi del solito biopic, ma del resoconto dei i ultimi, cruciali giorni di vita del presidente USA più amato dopo Washington, soprattutto di quel gennaio 1865 quando, coniugando una lungimirante visione di statista con un sopraffino pragmatismo politico, si impegnò a far passare al Congresso il Tredicesimo Emendamento alla Costituzione che aboliva la schiavitù, consapevole che era una tappa decisiva per il futuro della nazione. Ma, attingendo a svariate fonti oltre che l’ottimo libro Team of Rivals di Doris Kearns Goodwin, il drammaturgo Tony Kushner ha saputo condensare in quei pochi giorni il senso di un’intera esistenza, di un’intera personalità; e Spielberg, lavorando all’unisono, ha provveduto a contrappuntare il magnifico copione di immagini splendide quanto significative ed emozionanti, intessute come sono di riferimenti storici e biografici. Poi, dicevamo, c’è l’eccelso Daniel Day Lewis che semplicemente “è” Lincoln, con una interiorizzata naturalezza che rende vivo e attualissimo il personaggio: nella sua tristezza e nella sua capacità di ammaliare con le parole, nella sensibilità affettiva e nell’idealistica intransigenza. E che dire dell’eccellenza dei valori produttivi e di un cast in cui spiccano il Thaddeus Stevens di Tommy Lee Jones e la Mary (consorte del presidente) di Sally Field? “Lincoln”, pertanto, non è solo una straordinaria lezione di politica, è anche una straordinaria lezione di cinema.
Come ha scritto Claudio Mereghetti sul Corriere, anche se forse Spielberg non ama Straub,l’esito del film fa immaginare un possibile pont» tra questi due registi lontanissimi (e per molti versi antitetici). Perché per la prima volta nella carriera del regista hollywoodiano il visivo cede il passo al parlato e il film riconosce alla forza del dialogo una priorità che sarebbe difficile trovare negli altri suoi film. E perché non si tratta di una “parola” fine a se stessa, magari compiaciuta della propria eloquenza o della propria musicalità: è una “parola” che ci aiuta a misurare direttamente il potere, che diventa a sua volta potere, serve per conquistarlo esercitarlo e mantenerlo.
E veniamo al’altro spettacolo grandioso: “Les miserables”, in cui Tom Hooper coniuga, ed anzi sposa, musiche commoventi a grandi performance, imponendo la sua idea di cinema a dispetto della produzione.
Il premio Oscar per “Il discorso del re”, possiede un approccio molto personale al film in costume. Lo aveva già lasciato intendere in una serie TV portentosa come John Adams, lo aveva confermato col film appena citato, lo ha definitivamente sancito con “Les Misérables: musical dalla potenza emotiva e cinematografica impressionante.
E, come era successo quindi nei suoi precedenti prodotti, anche in quest’ultimo riesce a tirar fuori il meglio dai suoi interpreti: il piano-sequenza in cui una bravissima Anne Hathaway canta in maniera superba il suo assolo è il momento più commovente e riuscito del film. Quanto poi a Russel Crowe, è intenso come non gli succedeva dai tempi di “American Gangster”. È vero che non ha la voce adatta a questo tipo di musical e a livello canoro si dimostra inferiore agli altri, ma compensa questo ritardo con un carisma inusitato, e quando è in scena difficilmente si riesce a puntare l’attenzione su qualcun altro.
Infine Hugh Jackman, che si dimostra protagonista perfetto aderendo al ruolo di Jean Valjean con ardore, da consumato uomo di musical.
Dopo 17 anni dalla prima del musical di larghissimo successo, scritto da Alan Boublil e Claude-Michel Schönberg, , che nel film ha curato le musiche, Tom Hooper ne cava un capolavoro che merita tutte le otto nomination alla prossima “notte degli Oscar”.
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