(di Tania Ianni) – C’è nella letteratura americana una figura che, ad un certo punto della sua vita, ha deciso di allontanarsi dal mondo, rinchiudendosi in una stanza di casa sua, dove ha trascorso il tempo scrivendo poesie.
Si tratta di Emily Dickinson. Nata nel 1830 ad Amherst, nel Massachusets, suo padre era legale e tesoriere dell’ Amherst College, fondato a sua volta da un gruppo di persone, di cui faceva parte anche il nonno paterno di Emily.
Abbandona il college femminile di Mount Holyoke, per non professarsi cattolica; inizia a scrivere poesie tra gli anni 1840 e 1850, e vi tematizza la natura, la morte, la amore, e volentieri fa riferisce ai momenti di vita quotidiana.
La decisione di isolarsi la prende quando ha venticinque anni, a causa dello insorgere di disturbi nervosi e di una malattia agli occhi, credendo che con la fantasia si potesse ottenere tutto, e considerando la solitudine come uno strumento per essere felice.
Durante il suo autoesilio nella casa paterna, nella sua camera, senza uscirne nemmeno quando muoiono i suoi genitori.
Con gli amici, comunica dalla sua stanza scrivendo loro lettere e ricevendone da loro.
Alla sua morte nel 1886, sua sorella, entrando nella stanza, scopre le poesie di Emily: 1775 poesie, che lei scrive su foglietti di carta, piegati, cuciti e poi riposti in un raccoglitore.
La prima pubblicazione in volume di alcune sue poesie è del 1890, grazie alla sorella e ad una amica del fratello; prima edizione critica di tutte le poesie, in tre volumi, è del 1955, a cura di Thomas H. Johnson.
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