(di Carlo Di Stanislao) – Vincitore del Leone d’oro all’ultimo Festival di Venezia, ” il “Faust”di Aleksandr Sokurov ha fatto, il 26 ottobre, il suo ingresso, molto in sordina, nelle sale italiane, distribuito dalla Archibald Enterprise Film. La storia è quella raccontata da Goethe tra Sette e Ottocento: Faust fa un patto con il diavolo per ottenere la conoscenza, ma Sokurov compie un ulteriore passo in avanti e riunisce in un unico film le sue tre opere precedenti, in una tetralogia che parte da Hitler e arriva a Faust passando per Lenin e Hiroito. Questo film, infatti, rappresenta l’apice e al contempo la conclusione di un’ideale tetralogia del regista russo incentrata sul tema del potere: una tetralogia composta da alcune delle pellicole più acclamate di Sokurov, ovvero Moloch (1999), uno sguardo intimo e grottesco alla vita privata di Adolf Hitler; Taurus (2001), un dramma biografico su Vladimir Lenin; e Il sole (2005), un malinconico ritratto dell’ultimo Imperatore giapponese. Sukurov è l’ultimo di una serie di Autori, grandi e minori, che si sono interessati al mefistofelico, complesso personaggio, protagonista del volume in prosa Historia von D. Iohan Fausten, pubblicato da un anonimo autore tedesco nel 1587, tradotto in imnglese da P. F. Gentleman nel 1592 come La storia della vita dannata e della meritata morte del Dottor Iohn Faustus e ripreso da Marlowe nel 1600, per la La tragica storia del Dottor Faustus, che a sua volta ispirò Goethe. “Faust in realtà è molto più che un personaggio, è un mondo, un simbolo imprescindibile della cultura. Rappresenta uno dei miti di fondo, antropologici dell’uomo: l’intenzione di sorpassare la propria natura, di immaginare vite e paesi dall’altra parte, di non essere secondi neppure al trascendente, di cercare di avvicinarsi a lui, a costo di pagare, di pagare tutto”, ha detto il regista russo a Venezia, che nel concepire la sua narrazione, è si rifà a due richiami artistici importanti e comodi, come Bruegel e Bosch, ma li contamina sottraendone il colore, rendendo tutto grigio e polveroso. Sukurov, da autentico Maestro, utilizza ogni risorsa espressiva disponibile – dall’uso delle luci alla misura del quadro, dalla prospettiva ai dialoghi, dalla tradizione pittorica a quella letteraria (Goethe certamente, ma anche Mann) – per dare forma a una metafisica al rovescio. Al di qua di tutto, Faust ci schiaccia per terra e ci riporta su, in un doppio movimento discensionale/ascensionale. Dalla caduta più fetida – dell’angelo superbo – alla scalata più dannosa – dell’uomo che si sostituisce a Dio. Una reversio rispetto al percorso dei tre suoi precedenti film, dove il potere che si presumeva divino veniva smascherato, riportato alla sua germinazione umana. Faust è come l’albero della vita (quello di Malick, per intenderci) al contrario: dalle vette al fondo, nel pozzo di un’esistenza terragna. Fin dalla soggettiva iniziale, giù in picchiata, dal cielo al verminaio umano, dritti all’obitorio, fino al dettaglio di un pene, sezione aurea di un corpo misurabile, sventrato. Faust è lo scienziato che estrae cuore e budella, polmoni e interiora, cercando altro. Ed i critici o avevano detto già a settembre, in occasione dei Leoni d’Oro: mettere Sokurov in concorso era come candidare Dante al Premio Strega. Nato a Irkutsk, in Siberia, nel 1951, in quasi trent’anni di attività, dal 1978 ad oggi, Sukurov ha realizzato ben 15 lungometraggi e quasi trenta documentari. Una produzione ricca, che per lungo tempo è stata censurata in patria ed è rimasta sconosciuta al pubblico occidentale. Ma grazie all’interessamento del grande Andrej Tarkovskij, all’acume di critici italiani come Ghezzi e Marco Müller, ai crescenti favori riscontrati in Giappone, oggi Sokurov è considerato il maggior regista russo vivente. In questa sua ultima fatica, Sukurov, nel suo pessimismo da prima della rivoluzione, è davvero il cineasta contemporaneo il cui sentire è maggiormente assimilabile a quello dei suoi compatrioti romanzieri Dostoevskij e Tolstoj. Se si considera infatti, in maniera assolutamente arbitraria, la sola produzione documentaria, considerandola per un attimo separata dal corpo dei film tecnicamente di finzione, si nota nell’ispirazione del regista una vena malinconica struggente. Basta pensare per esempio a film come Dolce (dedicato allo scrittore giapponese Toshio Shimao [1917-1986]), Peterburgskaya eligiya o Leningradskaya retrospektiva (1957 – 1990) dove ci sembra espresso al meglio un sentire profondamente russo, una sorta di Weltschmerz non conciliato che nei lungometraggi di finzione si scontra invece fatalmente con la storia rivelando asperità e fratture paradossalmente occultati dal sentire assoluto dei documentari. Il Faust, che vedremo al Moviplex de l’Aquila in unica proiezione, a partire dalle 20, il giorno 15 dicembre, grazie al Nuovo Circolo Letterario Aquilano, evita di arenarsi fra le pieghe di un accademismo sterile è mette in scena, nel momento stesso del rivelarsi della hybris tedesca, il tramonto stesso dell’Occidente. Profondamente nero, il film contempla la finitezza umana e la fallacità della sua imitazione divina. L’esperienza umana, costretta entro gli spazi angusti dei luoghi chiusi di un villaggio minuscolo, viene alla fine proiettata sullo sfondo di una natura che sembra assumere i caratteri del noumeno. La cosa in sé non è conoscibile. La bestemmia dell’uomo è di volerla violare comunque. Eccellente la prova degli interpreti: Johannes Zeiler, Anton Adasinskiy, Isolda Dychauk e la grande Hanna Schygulla, interprete-simbolo di Fassbinder, con il quale ha girato 23 film, che dal 1981 Dal vive a Parigi dove si esibisce anche nei teatri come chanteuse, interpretando brani d’autoree chenegli anni 90 ha inciso l’album Hanna Schygulla chante/singt. Tornando a Sukurov, egli ha dichiarato (come anche ha fatto di recente il grande regista americano Michael Cimino), che lLe qualità umane e il carattere sono più importanti di qualsiasi circostanza storica”; ma, soprattutto in Arca Russa (2002), un unico piano sequenza di 96 minuti girato al Museo dell’Hermitag, con l’utilizzo contemporaneo di 33 set e circa mille tra attori e comparse, ha dimostrato la sua straordinaria capacità tecnica. I suoi film sono stati premiati da vari festival tra cui Berlino, Cannes, Mosca, Toronto, Locarno e, da ultimo, Venezia. Nel 2003 il Torino Film Festival gli ha dedicato una retrospettiva completa, la prima in Italia sul regista russo. Nel 2009, infine, ha pubblicato presso Bompiani la sua raccolta di scritti Nel centro dell’oceano, libro relativo alla storia, alla guerra e ai ricordi familiari, alla base della poetica [leggi tutto …] e della visione del mondo di Sokurov, esposte in “Diari e quaderni di lavoro “, fino ad arrivare agli “Appunti per delle lezioni di filosofia”, i quali per il tono poetico rimandano più allo stile recondito dei diari che ad un essai di intento filosofico-estetico. Da questa prosa intima l’autore conduce poi il lettore alle “Elegie”, seguite da una specie di “lettera a se stesso” intitolata “Il mio posto nel cinema”, delle riflessioni su Ejtenstejn, i cui disegni servono in realtà a Sokurov come spunto per rileggere di nuovo il mondo e l’arte, oltre che se stesso. In questo modo il lettore, condotto dalle steppe Cecene alle silenziose stanze del Cremlino fino alle isole giapponesi, può avvertire la vita pulsante dello spirito dell’autore e diventare testimone di come egli si senta in questo mondo – immergendosi nell’intimità dei suoi diari e delle memorie, e superando così l’apparente non-fluidità di un’opera non omogenea. Come ha scritto di recente nella sua monografia intitolata Cinema of Alexander SokurovBirgit Beumers, Sukurov non è mai scontato o banale e non è mai distante dalla’attrazione fascinante del piacere del racconto.
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