(Di Carlo Di Stanislao) E’ nata ad Arsita, in provincia di Teramo ed ora vive a Penne, nel pescarese, con compagno e figlio, dove esercita la professione di odontoiatra pediatrico. Nel 2001 ha dato alle stampe il suo primo romanzo: “mia madre è un fiume” ed è stato un susseguirsi i premi e riconoscimenti, con varie ristampe e traduzione in tedesco. Un libro “asciutto ed aspro”, come ha scritto sul Corriere Cristina Taglietti, una cronaca quotidiano dove sfilano, giorno dopo giorno i personaggi della famiglia, gli abitanti del piccolo paesino ancora senza acqua né luce; personaggi talmente legati a una terra avara, da tollerare a malapena trasferimenti a breve distanza – la ricerca di un lavoro, l’occasione di poter frequentare una scuola “in città” – partenze che si trasformano in vere emigrazioni con il solo scopo del ritorno. Una “Cronaca famigliare” ma abruzzese e contadina, con ricordi dolcissimi e crudeli, pieni di vita e di verità, bruschi ed audaci e che ci riportano a come eravamo e misurano ciò che siamo diventati, amaramente.
Quest’anno, a tre anni da quel successo, sempre per Elliot edizioni, Donatella Di Pietrantonio si occupa del terremoto de L’Aquila, nel suo secondo romanzo: “Bella mia”, un’opera che racconta con straordinaria forza poetica, l’amore e ciò che proviamo nel perderlo ma, soprattutto, parla della speranza di ricostruire noi stessi ed i nostri luoghi offesi e che attendono il riscatto degli affetti intimi e della fiducia nella vita.
Le pagine scorrono, una dopo l’altra, con sentimenti sfumati e poi sempre più netti, mentre seguiamo la protagonista, la cui sorella gemella, che sembrava predestinata alla fortuna, rimane vittima del terremoto de L’Aquila ed i figlio Marco che viene affidato in un primo tempo al padre, che però non sa come occuparsene, sicché sarà l’anziana madre, trasferita in quei non luoghi che sono le C.A.S.E, a farlo, con dolore e pudore, ma anche con la forza determinata di una razza granitica e con non cede.
Come ha scritto Michele Lauro su Panorama, la schiettezza e intensità di questa narrazione permette di entrare in contatto in modo non mediato con la fragilità della condizione umana, di cui il dolore è parte costitutiva e nel contempo di percepire la potenza di quella “epilessia della terra insorta” che fu il sisma del 6 aprile 2009, a cui è seguita per molti sopravvissuti una vita provvisoria fatta di acronimi e inutili promesse (viene in mente l’ultima, di renzi, che ancora si attarda a venire in questi luoghi).
Il racconto plasma un urlo munchiano ma che non esclude un dio delle piccole cose che si nasconde nella frattura degli intonaci e negli interstizi del cuore, capace di far intravedere un futuro ed una speranza fatta di corolle di melograni, di premure canine, di gole pigolanti e di invisibili alleanze di anime a cui il trauma ha sottratto, ma solo per un istante, la naturale propensione alla socievolezza e alla consapevolezza che non si vive di promesse ma di emozioni nei ricordi e di forza che da questi derivano.
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