(di Carlo Di Stanislao) – Noi gente comune vediamo le modelle come irraggiungibili “modelli” di bellezza, ma raramente riflettiamo sul cosa c’è dietro questa costante (ed apparente) aurea di perfezione, che nasconde, sovente, diverse fragilità interne, sorrette da impalcature davvero deboli per il peso che debbono sopportare. Ce lo dice in modo sguaiato “Sotto il vestito niente” dei fratelli Vanzina e, molto più acutamente, “Pret a porter” di Robert Altman. In definitiva il mondo della moda è il mondo dellaeffimero, del niente, vacuo e spumeggiante, uno spettacolo circense i cui protagonisti sono sempre sulla graticola (della competizione, del peso, dell’invecchiamento). Di questo mondo vuoto e micidiale, parla anche, sebbene solo marginalmente, Bret Easton Ellis, nel suo romanzo “Meno di Zero”, uscito nel 1986, come metafora emblematica e feticcio di una classe sociale materialista e pericolosamente propensa alle esperienze estreme.
Nata a Brescia nel 1983, Francesca Lancini è stata modella ed attrice ed ora, grazie a Bompiani, esordisce come romanziera, con “Senza tacchi”, un racconto ironico e brioso, certamente romanzo di formazione, ma molto contemporaneo, in cui si cerca di combattere la superficialità dei nostri tempi per cercare di scoprire veramente se stessi e il mondo che ci circonda. La protagonista è Sofia una ragazza di 24 anni che fa, appunto, la modella, ma che non ama il suo lavoro, detestando il modo in cui le modelle trattano il corpo, nel tentativo di rimanere sempre dentro una taglia 38, detestando i flash dei fotografi e le urla isteriche che si alzano continuamente da ogni angolo.
L’unica cosa che Sofia ama veramente sono i libri e ogni giorno attende il momento in cui potrà finalmente concedersi un’ ora di lettura, in totale solitudine. Le uniche persone che Sofia riesce ad accettare sono: Ginevra, la sorellina sedicenne che gli regale un cinico sguardo sul mondo e Paolo, che ha uno spaccio di libri sui Navigli e che si è creato una realtà virtuale, immersa nelle pagine dei grandi racconti, capace di rendere più sopportabile e meno vacua l’esistenza. Da maliziosi si potrebbe pensare che a Francesca Lancini è stata data la grande possibilità che sognano altre migliaia di aspiranti scrittori, solo perché il suo nome e la frequentazione col mondo della moda e dello spettacolo faranno da traino al libro. Non è così e lo dimostra questa sua opera prima, che inaugura anche la nuova collana “pop” della casa editrice Bompiani, nata con l’obiettivo di creare uno spazio in cui parlare del mondo contemporaneo e delle contraddizioni che lo caratterizzano.
A me pare che ci troviamo di fronte ad un misto fra “Il giovane Holden” e “Il Diavolo veste Prada”, di cui si può già sentire il profumo di un “caso letterario”. Eccellente la forma, ben costruito lo sviluppo narrativo, segni inequivocabile che lei, la bella Francesca, ventisettenne e promessa del tennis sino a 18 anni, con successivo ingresso nel mondo della tv come schedina nel programma televisivo “Quelli che il calcio” e della moda, con sfilate per Thierry Mugler, Mariella Burani, Rocco Barocco, Gattinoni, che poi ha cominciato a studiare recitazione, partecipando a film sia per la televisione (“Madame” con Nancy Brilli), che a cortometraggi, video musicali, spot pubblicitari e film per il cinema ( “Ocean’s Twelve”, con George Clooney); fra backstage e set, ha anche trovato il tempo di leggere, approfondire, studiare e, soprattutto, per pensare. In ritardo, poi, voglio salutare, Francesca Sanvitale, giornalista e scrittrice, morta a febbraio, all’età di 83 anni, dopo una lunga malattia, che aveva collaborato per grandi quotidiani e riviste come Il Messaggero, La Nazione, l’Unità, l’Espresso, arrivando alla direzione delle riviste letterarie Nuovi Argomenti e MicroMega. Lavorò in Rai per ben ventisette anni e fu la fondatrice, insieme a Enzo Siciliano, del magazine culturale “Settimo giorno”, che trattava argomenti di letteratura, arte, cinema e filosofia. Il successo arrivò nel 1972 con il romanzo “Il cuore borghese”, in cui raccontava la famiglia, la donna e il valore della letteratura, mentre nel 1980 pubblicò “Madre e figlia”, romanzo su un legame familiare diventato storia del costume italiano tra fascismo e dopoguerra.
Dopo quatto anni di ricerche, si cimentò nel romanzo storico “Il figlio dell’Impero”, sulla fine dell’impero napoleonico, la restaurazione e la nascita dell’Europa moderna. Nel 2008 fu la vincitrice del Premio Chiara e del Premio Viareggio con la sua ultima opera, “L’inizio è in autunno”, edito da Einaudi, un grande romanzo sulla memoria, in cui l’affacciarsi di un dubbio, il confrontarsi con un enigma forse privo di risposte, fa riaffiorare dal passato fantasmi e ricordi che si credevano cancellati per sempre. Cesare Segre ha scritto di lei: “una grande scrittrice, ma anche una persona che ha creduto nella cultura come mestiere. Pur nella sprezzatura di donna moderna, la Sanvitale non riusciva a nascondere un tratto aristocratico, non certo in contrasto con le sue posizioni progressiste e con il suo impegno per la causa femminile. Ora Francesca Sanvitale ci ha lasciati, anche se continuerà a parlarci con i suoi molti bei libri. Ma rimpiangeremo la sua presenza vivace, discreta, elegante, la sua parola limpida e, quando occorra, decisa. Tra i protagonisti della nostra vita letteraria era uno dei più garbati e sapienti”.
Pensando a queste due donne, diverse e con carriere tanto differenti, mi è venuto da ricordare che il femminile, parafrasando Campbell, è davvero una divintà dai mille volti, dea con mille nomi e con nessun nome, simbolo di libertà dalle convenzioni, che agisce in modo rivoluzionario e sotterraneo e da sempre si è sentito a proprio agio con le caotiche logiche dell’inconscio. I due fondamentali lati del femminile, quello della donna e quello dell’inconscio, procedano con dinamiche parallele e interdialoganti ad un tempo. Si sa da sempre che le donne hanno maggiore familiarità e facilità ad ascoltare il mondo delle emozioni, dei sentimenti, dell’interiorità. E da sempre sanno convivere con il principio di contraddizione. La loro stessa fisicità porta gli attributi della generosità, del vuoto accogliente e rotondo, della paziente attesa, della disponibilità verso il vivente, del nutrire e dare piacere, dell’abnegazione. Reggono le tensioni dell’affettività meglio dei loro compagni di vita, reggono da sempre meglio, perché a questo erano destinate e preparate, il mondo delle contraddizioni quotidiane della vita: l’amore in tutte le sue declinazioni più domestiche, la malattia, la sofferenza e la morte.
Insomma esse traggono queste qualità dall’essersi per millenni lasciate permeare più dal mondo sotterraneo dell’inconscio: portatore di talenti e di canali alternativi alla conoscenza che non dal mondo sociale e dalle sue leggi (per quanto tempo le donne sono state chiamate streghe e bruciate per una loro diversa conoscenza della medicina che esse sapevano cogliere direttamente dalla natura?). Ed oggi questo femminile ctonico, ricco e complesso, esplode in mille rivoli e con facce le più diverse, affascinanti e variegate e,soprattutto, da scoprire.
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