(Di Carlo Di Stanislao) In caso di morte, Laura Antonelli voleva che i primi a essere avvisati fossero il fratello Claudio, l’attore Lino Banfi, l’ex attrice Claudia Koll e uno dei parroci di Ladispoli. Lo aveva scritto su un biglietto, l’unico appunto degli ultimi anni di vita.
Il suo era stato un corpo carico di nostalgie e di desideri, un corpo ed un viso bellissimi rovinati anzitempo ed anzitempo dimenticati e nel modo peggiore.
La sua vita e la sua morte ricordano quella di un altro simbolo del cinema: Anita Ekberg, morta l’11 gennaio, dimenticata da tutti, in un modestissimo ospizio a Rocca di Papa.
Due miti del grande schermo, nate e cresciute quando il cinema aveva ancora solidamente in pugno il monopolio dell’immaginario, passate dai fasti del divismo alla tristezza dell’autoreclusione e dell’oblìo, imposto, nel caso della attrice svedese cara a Fellini, accettato con rassegnazione da Laura, la protagonista dei desideri maschili di due intere generazioni, per quali incarnava un sentimento ancora sconosciuto ma sempre più diffuso: la nostalgia, il rimpianto per epoche perdute, con tutto ciò che si portavano dentro in termini di fantasie, condite dal profumo un po’ malato di trasgressioni, che in quegli anni sembravano tramontate, ma confermavano ruoli sempre più violentemente messi in discussione.
Quel corpo morbido e senza tempo, privo della benché minima sfumatura di aggressività; quelle forme prorompenti e insieme timide; quel sex appeal irresistibile e insieme quasi dimesso, modesto, provinciale, la consegnavano a un’età e a una concezione del cinema del tutto particolari ed irripetibilei
Lei era stata la più grande fra le dive di quel cinema passato sotto il nome stupidamente spregiativo di commedia sexy, come Carla Romanelli e Alessandra Delli Colli, ad esempio, ma Daaniela Poggi e la giovanissima Romina Power a far compagnia a bellezze esagerate e sottovalutate, come Carol Andrè, Cristina Lindberg, Teresa Ann Savoy e via dicendo.
Ma lei, come solo Isa Pellegrini per “Salò di Pasolini”, ebbe almeno la fortuna di girare con grandi autori: Comencini, Risi, Bolognini ed il grande Luchino Visconti, che ne comprese l’intima umanità ferita ne “L’Innocente”, dove non si esaltava il contrasto conturbante del viso da bambino con il corpo da donna, ma il senso profondo di vittima e di preda che emanava dalla sua persona.
Dopo le sequenze sadomaso di Corinne Clery in “Histoire d’O”, le sue , con la biancheria preferibilmente nera, in contrasto con il candore della carnagione, eco ddi un candore più profondo, faceva incazzare le femministe nemiche della guepière e della depilazione e mandava in visibilio uomini già allora disorientati e messi in un angolo, rintuzzati in un ruolo che non avevano previsto.
Nella locandina del “Merlo maschio” di Pasquale Festa Campanile, si vede il suo partner cinematografico, Lando Buzzanca, intento a suonare con l’archetto da violino il corpo nudo di Laura. Era un omaggio a una celebre fotografia di Man Ray, ma era anche l’immagine di una femminilità arresa, che si lascia “suonare” dal maschio.
E’ stata una donna passionale ed ingenua nella vita, trasgressiva e generosa, fatalmente portata verso gli uomini meno adatti, un cocktail micidiale di sensualità ed innocenza.
Con Jean-Paul Belmondo era stata lei a prendere l’iniziativa sussurrandogli in un orecchio il suo desiderio di andare a letto con lui.
Ed era intelligente Laura Antonelli, tanto da aver capito che ad un certo punto, finita la bellezza mozzafiato, doveva ritirarsi ed anzi sparire.
Si era rifugiata in una vita appartata, insidiata da un’immeritata accusa di spaccio di cocaina che l’aveva portata in tribunale e in carcere, facendola soffrire, per essere poi riconosciuta innocente nove anni dopo e portandola a recarci più volte nel Centro di igiene mentale di Civitavecchia.
Poi l’altro dramma, a seguito della proposta insensata di Salvatore Samperi di girare il sequel di “Malizia”: l’intervento di chirurgia plastica da cui era uscita deturpata.
Era tornata alla povertà che aveva conosciuto da piccola come profuga istriana a Ladispoli, chiusa in casa, sconosciuta anche ai propri vicini.
Se qualcuno la chiamava chiudeva laconica la telefonata con un immancabile “Cristo sia con te” e nella casa dove è stata trovata morta, quattro giorni fa, la radio era accesa su Radio Maria, che seguiva per l’intera giornata.
Camminava per le strade di Ladispoli come una bambola rotta, stringendo un grosso crocifisso tra le mani, vestita da santona.
Quando nel 1996 fu ricoverata d’urgenza al reparto psichiatrico dell’Ospedale di Civitavecchia per una crisi di nervi, Carlo Verdelli, allora direttore di Sette, il settimanale del Corriere, spedì vari cronisti a parlare con le persone che l’avevano conosciuta, o che l’avevano amata.
Ma nessuno aveva voglia di parlare. Né Marco Risi, con cui lei ebbe una storia ai bei tempi, né Turi Ferro, che era stato suo partner in “Malizia”, il film del 1973 in cui esplose in tutta la sua morbida sensualità.
E nemmeno Giuseppe Tornatore, che aveva acquistato la casa romana dell’Antonelli in viale Medaglie d’Oro.
Se era comprensibile il silenzio dell’ex fidanzato Ciro Ippolito, il produttore cinematografico che un giorno fece arrivare una rosa rossa nello studio del press-agent Enrico Lucherini, dove si stava tenendo un incontro stampa con Laura, non si capiva l’astio di Teresa Bartolelli, amica di Laura e titolare della società immobiliare che curava gli interessi dell’attrice.
Ma evidentemente, e sin da allora, era diventata una persona scomoda, un’appestata.
Era morta allora Laura Antonelli e quella morta tre giorni, a 73 anni, col nome vero di Paola Pampana e lo sguardo perso ed allucinato che hanno a volte i mistici, era solo un simulacro, un’ombra o un involucro messo a testimoniare che nulla, neanche i sogni, durano troppo nel mondo.
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