(Di Carlo Di Stanislao) Si intitola “L’educazione (im)possibile” l’ultimo libro pubblicato per Rizzoli di Vittorino Andreoli, psichiatra di grande fama, autore di libri divulgativi di successo, membro della New York Academy of Sciences, presidente del Section Committee on Psychopathology of Expression della World Psychiatric Association, fermo oppositore della concezione lombrosiana secondo cui il crimine viene commesso necessariamente da un malato di mente; propugnatore della compatibilità della normalità con gli omicidi più efferati e che nel periodo compreso tra il 1962 e il 1984, ha anticipato, per molti aspetti, l’importanza della plasticità encefalica come “luogo” per la patologia mentale e, dunque, che l’ambiente contribuisce a strutturare la biologia della follia insieme all’eredità genetica.
In questa sua ultima fatica Andreoli ci dice che le ricette salva figli sono ormai diventate argomento quotidiano di discussione e confronto fra genitori in crisi e insegnanti rinunciatari. C’è chi grida alla sconfitta dell’antiautoritarismo.
Chi invoca un ritorno alla disciplina tra le mura domestiche. Chi accusa la scuola di aver abbandonato il suo ruolo pedagogico. Per Vittorino Andreoli, da sempre attento osservatore del disagio psicologico degli adolescenti e dei loro compagni più adulti, invece il fallimento educativo è un malessere profondo che riguarda tutti, genitori e no, e che può essere risolto solo con uno sforzo comune. Il primo sintomo va ricercato senz’altro nella morte della famiglia tradizionale. I bambini avrebbero bisogno di un’unica figura che si occupi di loro: la madre. L’aumento delle figure di riferimento – necessario, per molte ragioni, nella nostra società crea un disaccordo educativo, ed è la vera causa della loro inquietudine e disobbedienza.
Cosa dovrebbero fare, allora, i genitori per far crescere meglio i loro figli? Dovrebbero ritrovare un punto d’unione con tutte le figure che li affiancano: i nonni, le babysitter, le insegnanti dei nidi e delle scuole per l’infanzia… Educare vuol dire trasformare un figlio in un uomo o una donna capaci a loro volta di diventare padri e madri.
E per farlo dobbiamo tenere conto dei sentimenti che sono parte indispensabile di ogni processo di crescita.
Educare, parola ormai vuota in una società senza padri, senza famiglia, dove il denaro è il capo indiscusso e il tempo è quello dell’attimo fuggente e della non cultura. E’ da qui che bisogna partire per capire genitori in crisi e insegnanti rinunciatari davanti a figli e ad alunni maleducati, violenti, immaturi ma soprattutto che vivono senza la percezione del futuro.
Per Andreoli, in un tempo in cui si guarda soprattutto agli eroi e alle azioni eccezionali, in cui anche l’ultimo frammento di cultura è morto, è necessario “legare affettivamente i giovani ai vecchi” e per questo “è tempo che i programmi scolastici smettano di fare la storia delle battaglie e delle guerre, che è sempre falsa, anche quella proposta da un insegnante che si definisce ‘obiettivo’. Molto meglio dedicarsi alle piccole storie dove emergono i nonni e bisnonni”. L’augurio per una educazione possibile è che si “delinei un umanesimo della fragilità; che da qui, e solo da qui, rinasca una politica, rinascano i bisogni esistenziali dell’uomo e della convivenza tra uomini”.
Secondo la sua esperienza, il problema della impossibile educazione si individua nella mancanza di una figura di riferimento: i bambini passano le giornate con molti adulti e non più principalmente con uno solo, come nel modello famigliare del passato, perché la nostra società non ci permette di fare diversamente.
Nato a Verona nel 1940, Vittorino Andreoli, dopo la laurea in medicina e chirurgia, presso l’Università di Padova, prosegue ricerche e sperimentazioni, concentrandosi in particolare sullo studio dell’encefalo. Lavora per un periodo in Inghilterra, a Cambridge, e poi in America, a New York. Ben presto si appassiona allo studio della follia e sceglie di specializzarsi in neurologia e psichiatria. Forte dei suoi studi e delle sue esperienze, rifiuta il concetto dell’omicidio e degli atti efferati in genere come spiegabili solo attraverso la pazzia e mette invece in relazione il comportamento con l’ambiente nel quale la persona è cresciuta, superando così le conclusioni alle quali era giunto anni prima Cesare Lombroso (1835- 1909). Nel 1972 diviene Primario di psichiatria e eserciterà questo ruolo in molte strutture pubbliche. Dal 1998 al 2001 farà parte del Safety Working Party della The European Agency for the evaluation of Medicinal Products e sarà docente, per alcuni anni, presso l’Università del Molise. Sarà co- fondatore e segretario della Società italiana di Psichiatria Biologica e fondatore e co- direttore, per venti anni, della rivista scientifica Quaderni italiani di psichiatria.
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