(Di Carlo Di Stanislao) “Dimenticare Pasolini”, firmato dal saggista Pierpaolo Antonello, docente a Cambridge, vede in Napoli il fulcro attuale di una cultura che fa a pugni con il decrescere della Nazione e con una politica sempre più screditata e marginale, qualcosa di simile a quanto visto negli anni Ottanta, gli anni del pentapartito, quando le giunte comunali duravano pochi mesi e i sindaci si succedevano senza lasciare traccia, ma a Napoli era facile incontrare Pino Daniele e Mario Martone, Andy Warhol e Joseph Beuys.
Adesso i nuovi fiori nel deserto, i nuovi protagonisti della scena pubblica, i nuovi leader per quanto attiene l’opinione , sono cinque e tutti napoletani: Saviano, Sorrentino, Garrone, Servillo e Pascale, nuovi intellettuali non più organici ai partiti o, come Pasolini, in conflitto con essi, che pur sempre vaticinanti e assertivi, sono capaci di costruire un punto di vista autonomo e condiviso: autonomo dalla politica e dunque non definitivo, non ideologico; e condiviso nel senso di costruito non più in modo unidirezionale, dall’alto al basso, dall’autorità sapienziale alla base inconsapevole, ma, come molti dicono e molti altri contestano, orizzontalmente, attraverso i nuovi media e i social network.
Quattro di questi sono arcinoti, ma lo è meno Antonio Pascale, che per Einaudi ha pubblicato “Stile libero”, con una Caserta che è rivelazione del Sud, ma anche dell’ltalia intera, che, in tono sommesso, sghembo, spesso velato di comicità, un reportage narrativo che unisce racconto e riflessione per cogliere l’intero spettro di uno sviluppo febbrile selvaggio e vitalissimo, di una mutazione profonda che è sotto gli occhi di tutti e perciò, a volte, del tutto invisibile.
Una folla di senegalesi lungo il corso, e nessuno sembra accorgersene; la domenica delle polacche, sotto gli sguardi avidi dei casertani; piccoli criminali che aspettano, sulla strada di casa, di passare di grado. E un hinterland di case senza tetto, sempre da terminare, dove prolifera l’economia della mozzarella e del mobilificio, mentre terra e mare si corrompono, e forse muoiono.
Per Minimun Fax, ha pubblicato “Queta è l’Italia che non amo”, con esplicito sottotitolo: “Trent’anni di Italia senza stile”, a metà tra l’autobiografia sentimentale e l’inchiesta sul campo, dall’arrivo dei primi senegalesi nella provincia campana alla nascita delle televisioni commerciali, dal caso Di Bella al caso Englaro, dalle passioni giovanili ai dubbi della paternità: un coinvolgente, implacabile dialogo con il lettore, chiamato a mettere in crisi le sue false certezze.
Un suo testo (“Democrazia: cosa può fare uno scrittore”) è inserito nell’ultimo libro di Baricco; mentre Alfonso Belardinelli, convinto della improponibilità, ai nostri tempi, del romanzo in senso classico, lo indica, in un saggio intitolato appunto “Non incoraggiate il romanzo”, tra i migliori scrittori contemporanei.
Tornando al saggio di Antonello, è evidente che Pasolini è il centro indimebnticabile di tutti questi intellettuali, come anche di eccelenti autori non partenopei come Siti e Trevi, invocato, direttamente o indirettamente, come un esempio di impegno assoluto, come pietra di paragone e modello di engagement politico e civile.
E’ interessante ciò che scrive Antonello che vede in Saviano un modo diretto e semplice di adesione pasoliniana, un modo antinomico a quello di Sorrentino, che con barocchismi arditi non ha condanne morali da annunciare o strade politiche da indicare, ma, anche quando indaga su un personaggio come Andreotti, fa si che la forma sia sostanza e giudizio mai esplicito, mai espresso con il recupero di una verità indiziaria e storica, ma pronunciato attraverso l’arabesco citazionistico del cinema internazionale.
Su “Quaderni di Cinema” Stefano Bertuzzi scrive che se esistono due autori, oggi, che sintetizzano in modo diverso, le due anime del cinema italiano, quella minimalista e fenomenollogica di Antonioni e quella visionaria di Fellini, questi sono Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, fotografia nel primo caso e allegoria nell’altro, ma in entrambi analisi dei processi e sintesi della storia; con il primo che rpedilige la rappresentazione di storie semplici, o comunque di contesti sociali degradati, al limite dell’emigrazione e della illegalità e il secondo la cui nota stilistica di fondo è un sapiente e pervicace utilizzo del montaggio semantico, della fotografia estetica e della voce narrante dei personaggi.
Come ebbe modo di dire Guido Chiesa, apparentemente le scelte di Garrone sono più rivoluzionarie, ma solo in apparenza poiché la storia del cinema, “Sciopero” a “Il grande uno rosso”, da “Paisà” (che era ambientato a Napoli) a “La battaglia di Algeri” (di un napoletano), è fatta di innumerevoli volte in cui uno sguardo dal basso, minore, plurale, gha saputo raccontare la Storia e le sue traiettorie.
Più visionario è Sorrentino, nel cui cinema l’elemento visionario non sottrae comunque storicità, ma ancor di più vincola la narrazione al suo tempo e contesto (pensiamo alla scena dello skateboard, incomprensibile senza elementi storici che il film non fornisce de “Il Divo”), senza nessuna ucronia e con la curiosa necessità (si veda “La grande bellezza”), di descrivere contesti urbani precisi, come imprecisi e vaghi, invece, sono quelli di Garrone, deui non-luoghui e dei “non tempi” cari a Pasolini, ma le cui radici risalgono a “Guerra e pace”, a Hugo e, ancora, a J.G. Ballard e Philip Dick.
Con questi due cineasti partenopei c’è chi ha parlato (ad un convegno a Brescia Mauro Gervasini), di “New Italian Epic”, le cui opere non mancano di humour, ma rigettano il tono distaccato e gelidamente ironico da pastiche postmodernista, con delle narrazioni in cui c’è un calore, o comunque una presa di posizione e assunzione di responsabilità, che le traghetta oltre la playfulness obbligatoria del passato recente, oltre la strizzata d’occhio compulsiva, oltre la rivendicazione del “non prendersi sul serio”, come unica linea di condotta.
Ma tutto questo c’era già in Pasolini, scrittore e regista.
Sarebbe bello, come Istituto Lanrterna Magica de L’Aquila, riuscire, in una rassegna (magari al Cinema Massimo recuperato, perché tanto vale sognare in grande), far aprire e “giochi” da “Uccellacci e uccellini” e da “Salò” e continuare con “Terra di mezzo” e “L’imbalsamatore” e, ancora, “L’uomo in più” e “le conseguenze dell’amore”.
Il titolo c’è l’abbiamo “Con e dopo Pasolini”. Ora cercheremo i fondi.
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