Non poteva certo mancare nella rassegna che vede protagonisti i capolavori del cinema che hanno aperto nuovi orizzonti contenutistici e formali nel linguaggio cinematografico, uno dei film che concorre al superamento della poetica neorealistica e l’opera cinematografica che maggiormente ci connota all’estero: La dolce vita.
Si è svolto giovedì 28 il secondo appuntamento per la rassegna cinematografica Comunicare il cinema: “L’invenzione, la storia e l’evoluzione della settima arte”, progetto nato dalla collaborazione dell’Istituto cinematografico dell’Aquila “La Lanterna Magica” con l’associazione culturale “L’Impronta”.
<< Spartiacque del cinema italiano, un film cerniera nell’itinerario felliniano con la sua costruzione ad affresco, a blocchi narrativi e retrospettivamente un film storico che interpreta con acutezza un momento della storia d’Italia>> così afferma la portata del film il dizionario Morandini, evidenziando la duplice portata culturale dell’opera per il patrimonio italiano e internazionale; innovativo nel linguaggio – un linguaggio dallo stile quasi barocco, per la cura nelle ricostruzioni scenografiche, l’impianto d’illuminazione, la rinnovata attenzione al simbolismo e alla fascinazione del messaggio semplicemente alluso- ma soprattutto ritratto inedito dell’Italia del dopo guerra che guarda non solo alla condizione delle masse popolari ma anche alla ristretta classe elitaria borghese. L’arte come lente d’ingrandimento sulla società, sguardo indiscreto sugli aspetti perversi, corrotti che serpeggiano ammantati dallo sfavillìo dell’ostentazione dl lusso, o sono resi invisibili dall’accettazione di uno stato di fatto o dalla sicurezza della meccanicità della routine quotidiana. Il film mostra la vita dei ricchi borghesi che vivono nella capitale, lontani dai problemi di sopravvivenza del proletariato e del sottoproletariato, oggetto della morbosa attenzione di un giornalismo che sembra limitare i suoi strumenti di analisi e indagini alla ricerca dell’ultimo scandalo e alla sollecitazione del giudizio sommario delle sue vittime.
La trama si dipana lungo le orme di Marcello Rubini, giornalista che si occupa di servizi scandalistici, ma nutre l’ambizione di diventare scrittore. Marcello, intellettuale insoddisfatto, è protagonista di sette episodi senza un preciso legame narrativo, se non quello di raccontare l’involuzione morale del personaggio e dipingere, attraverso un occhio indiscreto, un affresco sulla realtà più intima della vita borghese accostandola talvolta allo stile di vita delle masse popolari, non raggiunte dal boom economico. Il film si apre con la statua del Cristo appesa a un elicottero che sorvola Roma e suscita l’interesse di gran parte della popolazione, dai ragazzini che giocano nelle periferie, alle ricche signore in bikini che prendono il sole sugli attici; Marcello ne approfitta per far immortalare le scene dai fotografi e dal fedele fotoreporter Paparazzo. Dalle immagini del volto del Cristo e dalla magnificenza di San Pietro, si passa nella scena seguente alle maschere di divinità orientaleggianti messe in scena in uno dei gaudenti locali della capitale frequentati da Marcello in cerca di scoop e foto compromettenti da sbattere sulle prime pagine dei rotocalchi. Inizia un percorso in una Roma che nulla ha della propagandata facciata cattolica della classe dirigente di riferimento ma che è piuttosto rappresentazione di una “Babilonia precristiana”. Da un tentativo di rappresentazione della misera condizione economica delle masse tramite il cinema del Neorealismo, Fellini volge ad una rappresentazione della misera ideologia di riferimento della classe benestante, fino allo smarrimento esistenziale degli stessi intellettuali.
Piercesare Stagni, responsabile della programmazione artistica della “Lanterna magica”, anche in occasione della seconda proiezione in programma fornisce agli spettatori presenti una breve introduzione, volta a fornire strumenti d’interpretazione, o meglio di orientamento all’interno di un tipo
di comunicazione, quella cinematografica, complessa per la commistione di codici; mi rendo conto come questa volta, in particolare, Stagni tracci rapidamente, con contorni estremamente sfumati e poco delineati un profilo del regista e dati riguardanti il film.
<<Non faccio un film per dibattere tesi o sostenere teorie. Faccio un film alla stessa maniera in cui vivo un sogno. Che è affascinante finché rimane misterioso e allusivo ma che rischia di diventare insipido quando viene spiegato>>: così Fellini ci ammonisce nel momento in cui rimaniamo avvinghiati nella simbologia e nell’enigmaticità caratteristiche proprie della sua filmografia- l’aggettivo felliniano indica anche questi tratti- ed è difficile orientarsi nell’universo di tesi contrastanti che scaturiscono dai tentativi d’interpretazione delle sue opere.
Basti pensare alla diatriba suscitata per l’accusa di anti-cattolicismo del film: si passò da una condanna sistematica dell’opera, accusata di edonismo e di celebrazione di un nuovo paganesimo, ad una lettura in chiave cattolica sostenuta da parte del mondo ecclesiastico, in primis dai gesuiti di San Fedele milanese che avevano accolto l’interpretazione di Nazareno Taddei, e dai più importanti intellettuali di riferimento, Pier Paolo Pasolini e Italo Calvino. La statua di Cristo come satirica considerazione di una convivenza tra Roma centro del cattolicesimo e Roma capitale del piacere perseguito come unico fine? Il mostro marino presente nella scena finale è simbolo di un Cristo che non risorge nel terzo giorno dopo la morte o di un Dio che vigila sulla realtà terrena e si prepara a giudicare i peccatori? Il bagno nella fontana della diva può essere metafora di un rito parodistico nei confronti del sacramento battesimale? La presenza della stessa diva sulla sommità di San Pietro in abiti da prete allude all’affermazione di una nuova religione?
Certo uno dei dati certi è la sensazione dello spettatore in un’atmosfera sospesa tra il reale e l’onirico: Stagni nota come le stesse scene che rappresentano il caotico formicolio in Via Veneto non siano state girate sul luogo ma ricostruite negli studi di Cinecittà. “Il visionario è l’unico realista” ribadiva di fatti Fellini.
Amara resta la sensazione dopo la visione nel film; rimane l’inconciliabilità di una visione di sintesi che porti ad abbracciare un’etica di salvezza nei confronti di una pervasiva percezione di vuoto esistenziale e “svogliatezza di vivere”; il suicidio di Steiner, l’esteta intellettuale, sembra rappresentar l’impossibilità di rifuggire all’Inferno che viviamo sulla terra e l’inappagato senso di metafisico. Le parole che pronuncia nel suo monologo sono triste affermazione di questa visione della vita: “Qualche volta di notte, quest’oscurità, questo silenzio, mi pesano. E’ la pace che mi fa paura temo la pace più di qualunque altra cosa. Mi sembra che sia soltanto un’apparenza e che nasconda l’Inferno. Pensa a cosa vedranno i miei figli domani, il mondo sarà meraviglioso- dicono. Ma da che punto di vista se basta uno squillo di telefono ad annunciare la fine di tutto. Bisognerebbe vivere fuori dalle passioni, oltre i sentimenti, nell’armonia che c’è nell’opera d’arte riuscita, in quell’ordine incantato. Dovremmo riuscire ad amarci tanto da vivere fuori dal tempo. Distaccati. Distaccati.”
E’ pur vero, però, che un’immagine, quella del viso adolescenziale di Paolina, la ragazza che aveva tanto colpito Marcello per la sua grazia innocente, ma che la mattina dopo la nottata di bagordi non riesce a riconoscere e a incontrare, sembra lasciare un margine di speranza: la possibilità di un riscatto, di trovare la purezza di una fanciullesca forza vitale.
Elisa Giandomenico
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