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Quentin vs Tim per citazioni, fra sangue e poesia

Quentin vs Tim per citazioni, fra sangue e poesia

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(Di Carlo Di Stanislao)
Quentin Tarantino e Tim Burton, due degli autori attuali con stile più definito e zoccolo duro di fan, si contendono lo scettro del film con maggiore incasso in questi giorni post-natalizi, con “Django Unchained”, omaggio più a Leone che a Corbucci e “Frankenweenie”, rilettura in animazione stop-motion ed in 3D di Frankenstein.
Nel primo la storia di uno schiavo liberato che, insieme ad un cacciatore di taglie, cerca di strappare dalle grinfie di un terribile schiavista la sua adorata moglie.
Nel secondo Victor, riporta in vita il suo cagnolino Sparky, grazie alla potenza dei fulmini.
“Django Unchained è “il primo western di Tarantino, pieno di sangue, violenza e citazioni rilette con uno spirito personale ed una forza che fino ad ora si era visto solo in “Bastardi Senza Gloria”.
Con un esordio fulminante ed un incasso arrivato a 400.000 euro nel primo giorno e 3,5 milioni in quattro, “Django Unchained”, è pieno di ritmo ed azione, con una rifacimento personalissimo ed una personalissima riedizione del western all’italiana, di cui eredita l’ambientazione, i costumi, lo stile (esempi lampanti sono le brusche zoomate sui volti dei personaggi e l’ampio utilizzo del piano americano), i titoli di testa, rossi e in stile “saloon”, e i temi centrali: la vendetta e il denaro.
Ma un regista ambizioso come il buon Quentin non si limita mai ad omaggiare i suoi miti: ogni scena ed ogni dialogo sono inequivocabilmente “tarantiniani”, affumicati dallo humor noir e dalle massicce dosi di violenza che costituiscono ormai il suo marchio di fabbrica. E così ci troviamo di fronte a un western atipico e asimmetrico, dove i “buoni” sono un cacciatore di taglie tedesco e un ex- schiavo nero assetato di vendetta, e i “cattivi” sono i sudisti americani, tanto razzisti che in confronto i bulli suburbani di Spike Lee fanno tenerezza.
Dal western si passa alla revenge story, proseguendo sul filone di “Bastardi senza gloria”, con Tarantino che da maestro incantevole ed incantatore, guida lo spettatore gradualmente e  con incredibile maestria verso il centro del film: il momento dell’ingresso nella storia di Candy (interpretato da un grandissimo Leonardo di Caprio), il cattivo che Tarantino dice, in un’intervista, di aver odiato di più durante tutta la sua carriera. E allora il film si immerge in un’atmosfera buia e vibrante: i dialoghi si allungano, i tempi si dilatano, la tensione si alza quasi a presagire un finale da tragedia shakespeariana.
Ma, nella storia e nella sua rappresentazione (come in Sergio Leone), vi è anche una morale, un apologo o, se si vuole, un messaggio politico: Django rappresenta la speranza di un riscatto, un nero a cavallo che stupisce coloro che lo vedono passare non solo per il colore della pelle, ma anche per la fierezza con cui guida il suo ronzino tra quei vicoli, con la consapevolezza di poter dimostrare, una volta per tutte, che il tempo della schiavitù è finito. E, ancora, colui che all’inizio gioca con la legge e con le parole per portare a compimento le sue poco ortodosse operazioni di giustizia, assume con il passare del tempo spessore e sensibilità maggiori, fino a divenire il simbolo di una strada da seguire.
Molto bravo (premiato col Golden Globe), Christoph Waltz, già vincitore di un Oscar con Bastardi senza gloria e, nel ruolo di Djiango, Jamie Foxx; ottima la fotografia; variegata e ben costruita la colonna sonora (in cui spicca la celebre Django di Bacalov, mescolata con l’insolito uso di canzoni rap) ed un delizioso cammeo anche per Franco Nero.
Alla efferatezza cinefila e raffinata (a volte paranoide) di Tarantino, risponde la delicatezza malinconica di Tim Burton, che porta al cinema un’idea risalente all’inizio della sua carriera cinematografica, con un nostalgico bianco e nero, una storia dolce e malinconica, la purezza dell’infanzia e l’amore per il macabro, che fanno di “Frankenweenie” un film assolutamente da vedere in cui dopo tanto tempo il grande regista torna a mostrare la sua autentica e struggente vena poetica.
Dopo una prima settimana di programmazione deludente ed un incasso di soli prendo la sua prima settimana di programmazione al settimo posto ed incassando 443mila euro, ora gli incassi paiono salire ed anche piuttosto velocemente, molto più di quanto facciano sia “Asterix e Obelix”, sia “Jack Reacher”, ma ancora lontano sia da “Vita di Pi”, sia “Gost Movie”, la commedia demenziale americana, parodia degli ultimi film sui fantasmi, che raccoglie 1,4 milioni di euro nei primi quattro giorni.
Nella libera trascrizione da Mary Shilley, Burton riesce ad infondere una sublime melanconia nel volto e negli occhi di un ragazzino non può rassegnarsi e, siccome il nome non mente, unendo i suoi apprendimenti scolastici alle sue naturali inclinazioni scientifiche ricuce e rianima Sparky, in una storia tenerissima di amicizia e amore, in cui sembra di viaggiare dentro un cuore malinconico e caldo, con il bianco e nero che dà quel tocco retrò così affascinante e la giusta rima di un sonetto dark. E, ovviamente, come il regista statunitense ci ha abituati, non mancano i tratti comici: Mr. Whiskers, ovvero il Signor Baffino della versione italiana, il gatto di Stranella, è esilarante nel suo sguardo fisso e imperturbabile, in tutto uguale alla padrona.
E non sono meno spassosi i suoi inquietanti presagi che si palesano come escrementi a forma di lettere.
Naturalmente anche qui non mancano le citazioni ed i riferimenti alla cinematografia dell’horror, tanto da fare di Frankenweenie un buon abbecedario per bambini curiosi e futuri cinefili. Un esempio tra tanti: la famiglia Frankenstein, bella comoda in divano, si gusta alla tv Dracula il vampiro (1958) con Christopher Lee. Ma ecco anche omaggi a La mummia, a Godzilla, ma stando alla dagli standard hollywoodiani, con un poesia che è autentica poesia.

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