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Resistere non serve a niente

Resistere non serve a niente

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(Di Carlo Di Stanislao) Siti è sempre stato scrittore di invidiabile fluidità e scorrevolezza, ma qui supera se stesso poiché riesce a fare della saggistica una narrazione (per di più avvincente), raccontando la vita di Tommaso Aricò e chiamandosi in causa come suo biografo, capace di raccontare le infinite sfumature di un trentacinquenne bankster feroce, ex genio matematico, ex obeso, figlio di una famiglia povera vicina alla mafia (con un padre in galera), che si arricchisce, passa da una relazione a un’altra con donne che ha difficoltà a amare, si entusiasma per la crescita del suo fondo d’investimento, si deprime, spiega come funziona il mondo del denaro, sia quello della finanza legale che quello dei soldi sporchi, che poi alla fin fine, sono un unico mondo.
Molte inchieste ci hanno parlato della famosa “zona grigia” tra criminalità e finanza, fatta di banchieri accondiscendenti, broker senza scrupoli, politici corrotti, malavitosi di seconda generazione laureati in Scienze economiche e ricevuti negli ambienti più lussuosi e insospettabili.
Ma qui Siti da un volto ai protagonisti di tale zona, immaginandoli nella loro vita quotidiana, con stile complice e mimetico e sfruttando al meglio le risorse che offre la letteratura per dirci che tale zona ha ormai invaso in modo perticane il mondo e resistere non solo non serve, ma è anche impossibile allo stato attuale.
Un romanzo che affronta con placida capacità introspettiva temi complessi come l’edipo ed il narcisismo, il corpo come merce e la falsificazione come rapporto, per mezzo di olgettine intelligenti, modelle in cerca di visibilità e successo, sereni delinquenti di borgata e mafiosi internazionali che interpretano la propria leadership come una missione in un universo dove i soldi ,sporchi e puliti, si confondono in un groviglio inestricabile, mentre la stessa distinzione tra bene e male appare incerta e velleitaria.
Candidato allo Strega e al Mondello, un libro dove le categorie sono collegate e confuse, in un gioco in cui nessuno è davvero innocente.
Come ha scritto Domenico Starnone, in questo, come in altri romanzi di Siti, ciò che più conta è il lavorio della composizione, dove l’Autore concede a un ormai collaudatissimo personaggio di scrittore-professore della nostra contemporaneità (il Walter Siti degli altri suoi ammirevoli libri, curiosissimo esploratore dell’oggi, sedotto dal male, dallo splendore nero dei soldi e dai vicoli ciechi, amante sfrenato del corpo maschile quando appartiene a barbari vigorosi), l’esibizione di capacità letterarie formidabili. Così ci offre in apertura una scena di garrotamento campano da far invidia al più scafato scrittore di genere. E prosegue con l’autopsia fisica ed emotiva di un personaggio pasoliniano, trasportandolo, malinconico, sentimentale, sulle vette del crimine perbene, il più astuto, il più carogna che ci sia.
Come al cinema Paolo Sorrentino (ma non Marco Risi con “Cha cha cha”), una descrizione disancantata del brutto del mondo di oggi, con un barlume solo di bellezza da immaginare ed inseguire, nei rari momenti di respiro.
L’impressione è quella di un torcersi sofferente delle intelligenze dentro un mondo di segni puri, senza referente, godurioso e insieme terrorizzato, dove ogni lieto fine e impensabile: un sudario che si distende sopra l’agonia.
D’altra parte Siti l’aveva detto nel suo ultimo saggio (anch’esso del 2013, pubblicato da Nottetempo), intitolato “Il realismo è l’impossibile”: la realtà cui aspira il realismo in letteratura non ha nulla di verosimile o di ideologico e solo dando al lettore qualcosa in più o in meno di quel che si aspetta, l’autore può infondergli quel senso di incertezza che la realtà produce. Perché la realtà non si dispiega ragionevolmente davanti a noi, ma ci coglie di sorpresa, a tradimento. Con un dettaglio inatteso nega la favola e ci convince di un intero mondo da esplorare. Cosi, il realismo fa lo stesso effetto della magia, dona a chi guarda il piacere di ingannarsi con la sua “bieca ammissione di poetica”.
Nato a Modena, residente a Milano, dopo aver insegnato nelle università di Pisa, Cosenza e L’Aquila, Walter Siti, dopo aver curato l’opera omnia di Pasolini, ha esordito piuttosto tardi come romanziere, nel 1994, alle soglie dei cinquanta, con Scuola di nudo, cui hanno fatto seguito Un dolore normale (1999), La magnifica merce (2004) e Troppi paradisi (2006), tutti editi da Einaudi.
Nel 2008 ha pubblicato ancora per la casa torinese passata a Mondadori Il contagio  e poi, per Rizzoli, la sua naturale continuazione: Il canto del diavolo (2009). Ha poi scritto nel 2010 Autopsia dell’ossessione, uscito per Mondadori.
Se con “Il contagio” la morte diviene “la sanzione di tutto ciò che il narratore può raccontare”, qui il ciclo di Siti continua attraverso una svolta, perché l’osservazione sociologica ha spinto l’autofiction fino al suo limite, e oltre; e questa ha contemporaneamente realizzato la possibilità di fondare le ragioni di un romanzo sull’autorità di ciò che è fuori, sulla res extensa, teorizzando che tutto il mondo è brutto, cinico e corrotto, senza nessuna consolatoria via d’uscita.
Il libro non è piaciuto a Busi ma è fra i favoriti nella corsa al Premio Strega (da cui Busi è stato escluso in semifinale), che verrà assegnato il 4 luglio a Roma e si contenderà la vittoria con “Le colpe dei padri” di Alessandro Perissinotto, Figli dello stesso padre di Romana Petri, “Mandami tanta vita” di Paolo Di Paolo e Nessuno sa di noi di Simona Sparaco.
Quanto al SuperMondello, il principale dei premi assegnati al Premio Letterario Internazionale nella sua XXXIX edizione, occorrerà attendere il parere della giuria popolare (composta da 1.100 lettori), il 30 settembre prossimo.
Lo scorso anno ha vinto quel premio “Città Distrutte”, di Davide Orecchio, un’opera innovativa e molto stimolante nella vi è grande abilità nel cucire e ricostruire fatti a metà tra il vero e l’immaginario, tutti legati dal quel fil rouge captabile nel titolo, che regge insieme le biografie infedeli che compongono l’opera: un regista sovietico in esilio, una desaparecida argentina, un’intellettuale romana solitaria, un giornalista siciliano tra fascismo e comunismo, un bracciante molisano, un diplomatico tedesco: in una “città distrutta” dal potere, dall’autorità dello Stato, della politica e dei totalitarismi. Percorsi esistenziali che avrebbero voluto essere diversi ma che, interrotti e contrastati da una storia collettiva calendarizzata da altri, non si compiono e non toccano la felicità. L’opera rielabora e accresce il genere biografico mescolandolo alla finzione, sicché le fattezze di ciascun ritratto sopravvivono come un calco alla sua matrice, fino a sembrare biografie rubate, repliche di originali, echi fittizi ispirati a vite effettive.

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