(Di Carlo Di Stanislao) E’ il gran giorno. Paolo Sorrentino scende in campo a difendere l’onore e la storia del nostro cinema nell’arena più illustre ed ambita: Cannes. Con lui tuto il cast dell’unico nostro film in concorso: “La grande bellezza”, su una Roma malinconica e decadente come il resto del Paese: una babilonia prossima al baratro, con protagonisti che continuano a far finta di nulla.
Il film è piaciuto e tiriamo un sospiro di sollievo, poiché si temeva che, all’estero, questa storia non potesse essere capita.
La critica, invece, anche quella straniera, ha applaudito e scritto buone recenzioni, tanto che il film è ora il candidato numero uno per la Palma D’Oro.
A Cannes ci sono, oltre a Sorrentino e al suo protaginista alter-ego Tony Servillo, Carlo Verdone (che ricopre il ruolo di Romano, autore teatrale emarginato e deluso, innamorato, ma non corrisposto , di un’attricetta) e Sabrimna Ferilli (Ramona, spogliarellista sul viale del tramonto, figura dolente di donna ferita dalla vita, Ramona , semplice e un po’ naif (che per un po’ accompagna Servillo nelle sue peregrinazioni notturne).
Al solito si è pensato a Fellini a “ La dolce vita” e “Le notti di Cabiria”, che forse vi è in tralice ed in nuga, e ma reintepretato da una sensibilità autorale molto forte, personale e davvero fuori dal comune.
Con un budget di 8 milioni di euro, prodotto con la Indigo Film di Nicola Giuliano e Francesca Cima, con Medusa ed il contributo del Mibac e la francese Babe Films per Pathè che lo distribuirà in Francia, La grande bellezza è un viaggio attraverso una Roma monumentale, barocca, deserta, che già nel titolo, come suggerisce l’autore, è qualcosa di atemporale, che non vuole definire in un momento storico gli accadimenti di cui racconta e per questo è stato scritto (da Sorrentino con Umberto Contarello), come se il tempo non esistesse o non avesse una precisa connotazione.
Erika Riggi, le cui “letture” sono sempre acute e ficcanti, scrive che il film è esagerato, ridondante, presuntuoso e geniale, un ritratto innamorato e allo stesso tempo rancoroso di una società (la nostra), che in fondo è sempre la stessa, un film che molti vorrebbero felliniano ed invece ricorda “I mostri” di Risi o quelli “nuovi” dello stesso regista con Scola e Monicelli.
“L’ironia è tra le cose che accomuna me e Paolo”, ha detto Tony Servillo in conferenza stampa ed aggiunto: l’ironia è un modo di prendere le distanze, e un elemento fondamentale della cultura napoletana. Questo ci ha permesso di creare Jap”, il protagonista, che guarda senza giudicare lo sfacelo di una civiltà e di un Paese.
Il film ha un valore aggiunto: tutti vi lavorano bene, non solo quelli già ricordati, ma anche Luca Marinelli figlio pazzo di una vedova bene, Isabella Ferrari amante ricca di Jap (il protagonista Servillo) che si fa le foto nuda per metterle su Facebook, con Jap che annuisce ma dice: “dopo i 65 anni non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare”.
Io ci spero in premio, perché il film lo merita e lo meritano tutti quelli che ci hanno lavorato, perché gli applausi ieri sono stanti tanti e scroscianti e perché, a detta di molti, non solo è il miglior film visto fino a oggi sulla Croisette, ma uno dei titoli più importanti dell’intera stagione.
Per rimanere a ieri, delude Soderbergh che ha portato a Cannes la sua ultima opera, “Behind the Candelabra”, incentrata sulla vita di Liberace, celebre pianista statunitense nato a Milwaukee nel 1919 e morto a Palm Springs nel 1987, prodotto dalla potentissima ed agguerritissimo HBO, operazioone piuttosto piatta di bioptic senza quei guizzi registici che avevano valorizzato i due lavori precedenti” “Magic Mike»”ed “Effetti collaterali”.
E delude anche “Un château en Italie”, terzo lungometraggio diretto da Valeria Bruni Tedeschi dopo “È più facile per un cammello…” del 2003 e “Attrici” del 2007, con la regista che interpreta anche la protagonista Louise: una donna appartenente a una famiglia, un tempo agiata, di industriali italiani che si trovano costretti a vendere il castello in cui vivono; film ben fatto ma senza equilibrio (a differenza dei Coen e di Servillo, appunto), fra il grottesco e il drammatico.
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