(Di Carlo Di Stanislao) Questa sessantasettesima edizione di Cannes sembra un po’ sotto tono, con la stessa stampa francese che la relega in un ambito minore, con minor spolvero e glamour piuttosto contenuto. Non mancano, tuttavia i buoni film come “Le meraviglie” di Alice Rohrwacher che ha riscosso ieri un applauso di 12 minuti e mostra che da noi, dopo i Moretti, Lucchetti, Mazzacurati, Martone, Virzì, Tornatore, Garrone, Ospetek, Daniele Vicari, Roberto Andò, ecc., vi è una nuova interessantissima leva di autori capaci di farsi valere.
Molto bello anche “Wild Tales” di Damián Szifron: uno spaccato multisfaccettato della nostra epoca assurda, della burocrazia che soffoca la ragione, dell’ingiustizia, del tradimento e infine dell’amore che su tutto trionfa, ma nel modo più autentico, istintivo e verace.
E, ancora, David Cronenberg, che con “Maps to The Stars”, parte di David Lynch e con perizia ne altera struttura e contenuti e Abel Ferrara che ci parla (ricevendo una querela per diffamazione) dello scandalo di Donique Strauss-Kahn, in un film, “Welcome to New York”, che sin’ora è stato, sulla Croisette, il più ricercato, contestato, applaudito e fischiato, con il valore aggiunto di un Depardieu in grandissima forma. C’è poi Nuri Bilge Ceylan, una di quelle personalità che hanno segnato un’epoca, di quella categoria a cui appartengono i Bergman, i Fellini, i Mizoguchi, che presenta “Winter sleep”, che dura più di tre ore, senza che in sala nessuno accenni a distrarsi, nonostante si tratti di un cinema da camera, con dialoghi che hanno inclinazione teatrale, con tempi cechoviani e paesaggi d’immensa poesia, in una storia in cui tutti cercano il loro posto nel mondo. Nemmeno il protagonista ci riesce, ma almeno ci prova. Prova a resistere e a reagire, mentre gli altri pieni di livore stanno a rinfacciargli la sua natura soffocante. Aydin non è autoritario, ma conosce abbastanza il mondo per ritirarsi a vita privata nella sua fortezza in Cappadocia. E mentre la sorella appena divorziata si aggira per casa senza meta accusando il fratello, i poveri si lamentano di essere sfortunati, qualcuno cerca di organizzare una beneficienza per lavarsi la coscienza, tutto sembra davvero com’è nella vita. Complesso e semplicemente incomprensibile. La capacità di giostrarsi in questa esistenza “ingiusta senza ragione”, la capacità di saper godere delle piccole cose senza essere ossessionati dalle proprie debolezze e dai propri fallimenti, in questo film diventano un manuale di vita tra il filosofico e lo shakespeariano, che accarezza con aggraziata tenerezza ed efficacia comunicativa lo spettatore.
La critica francese e non solo, parla ammirata anche di “Timbuktu” di Abderrahmane Sissoko, classico film engagé che fa impazzire le giurie e, in un momento di campagna internazionale per le ragazze nigeriane rapite da Boko Haram, potrebbe convincere tutti e portarsi a casa la Palma d’oro.
Per ora delude la Francia, con “La chambre bleu” di Mathieu Amalric, inserito in Un certain regard e il pazzerello, avanguardistico, anarcoide “FLA”, che ha aperto ufficialmente la Semaine de la critique. Delusione anche per Mike Leigh con un inerte “Mr. Turner” e per “The Captive” di Atom Egoyan, regista, sceneggiatore e produttore canadese di origini armene, che nel 1994 si è aggiudicato il Premio internazionale della critica proprio a Cannes per “Exotica”, ambientato nel mondo dei peep-show ed ancora, tre anni dopo, sempre a Cannes, il Premio speciale della giura, oltre a due nomination agli Oscar, per “Il dolce domani”.
Delude alla seconda prova con un western lento e noioso Tom Lee Jones:, che con “The Homesman”, con lui stesso e Hillary Swan, andato domenica, dimostra meno ispirazione de “le tre sepolture”.
Mancano tuttavia ancora quattro giorni e molti film per tracciare un bilancio finale; come anche per vedere i premi che certamente ci sorprenderanno, dal momento che la giuria è prevalentemente rosa quest’anno, con presidente Jane Champion e membri Carole Bouquet, Sofia Coppola, Leila Hatami, Jeon Do-yeon e Jia Zhangke e unici maschi Willem Dafoe, Nicolas Winding Refn e Gael Garcia Bernal.
Attendiamo curiosi il giudizio di giornalisti e pubblico per il terzo lungometraggio di Asia Argento: “Incompresa”, da “Ingannevole il cuore più di ogni cosa” di J.T. Leroy, con Gabrel Garko e Charlotte Gainsbourg, nella sezione Un certain regard, film ambientato nella prima metà degli anni ottanta, con nel cast anche Gian Marco Tognazzi e che ha per protagonista una bambina nove anni, interpretata dalla babystar Giulia Salerno, che sogna di essere amata da genitori tanto diastratti quanto egoisti e fuori di testa, coproduzione italo-francese della Wildside di Lorenzo Mieli e Mario Gianani, con la Paradis Films di Eric Heumann, realizzato (come polemicamente ha detto l’autrice), senza il sostegno del Ministero che, secondo quanto ha scritto si twitter, aiuta solo quella solita ‘classe’ di registi che di aiuti statali non avrebbe a bisogno.
“Sotto una buona stella” di Carlo Verdone; “Indovina chi viene a Natale?” di Fausto Brizzi; “Tutta colpa di Freud” di Paolo Genovese; “E fuori nevica” di Vincenzo Salemme; “Un matrimonio da favola” e “Sapore di te” di Carlo Vanzina; “Ti ricordi di me” di Rolando Ravello; “Il Pretore” di Giulio Base, sono alcuni dei titoli italiani che negli ultimi mesi hanno ricevuto l’ambito status di film “di interesse culturale”: una ‘pecetta’ tutt’altro che secondaria ed inutile e che per di più ricevono denaro pubblico mentre il più delle volte non necessiterebbero di alcun aiuto economico, perché si fa faticare a credere che senza i 300.000 euro presi dallo Stato il buon Carlo Verdone non sarebbe riuscito a girare la sua ultima commedia, che di euro ne ha incassati 10 milioni e che invece sarebbero state meglio spese per meritevoli opere prime e seconde o per film indipendenti ed intelligenti, molto diversi da quelli di Brizzi o dei Vanzina.
Riceve un contributo ministeriale irrisorio e la distribuzione di Luce e Cinecittà, “La moglie del sarto”, di Masimo Scaglione, distruibuito due anni dopo la sua realizzazione ed in questi giorni nelle sale, con Maria Grazia Cucinotta, Marta Gastini, Alessio Vassallo, Ernesto Mahieux e Tony Sperandeo, opera di grande bellezza formale ed autentica poesia, numero due di un autore che dal suo esordio (nel 1992), intitolato “Angeli al sud”, non è più riuscito a farsi finanziare nulla.
Nel film di Scaglione (ignorato ingiustamente da Cannes e Venezia ma non dall’attentessimo Montreal), c’è tutta la magia del sud, con storie tramandate, modi di dire e leggende, con donne fatali e madri amorevoli, con momenti di gioia e tratti melodrammatici che si combinano assieme. Bellissima anche la musica, composta da Rosaria Gaudio, capace di combinarsi alle immagini nel raccontare la storia di Rosetta, la bella moglie di un sarto del Sud d’Italia, interpretata da Maria Grazia Cucinotta, che dopo la morte improvvisa del marito combatte, insieme alla sua giovane figlia Sofia (Marta Gastini) con tutto il paese per difendere il suo onore e la sartoria per soli ‘uomini’; con l’’arrivo di un artista di strada (Tony Sperandeo) e l’improvvisa gravidanza di Rosetta, che cambia il corso della loro vita.
Il 3 settembre scorso il film è stato presentato a New York, in una proiezione privata per i distributori nordamericani, organizzata da Louis Di Giaimo, cast director di pellicole come ‘Il Padrino‘, ‘Thelma Luise‘, ‘Il Gladiatore’ e molte altre, ma senza alcun risultato.
Tornando a Cannes, ci inergoglisce la presenza sul poster ufficiale di Marcello Mastroianni, ritratto mentre si sfila gli occhiali da sole, in un celebre fotogramma del capolavoro di Federico Fellini 8 ½, rielaborato per l’occasione dai grafici Hervé Chigioni e Gilles Frappier, che a tal proposito hanno dichiarato:”Nello sguardo dietro gli occhiali abbiamo colto la promessa di una felicità cinematografica totale. La felicità di vivere Cannes insieme!”
E soprattutto ci rende orgogliosi il comunicato ufficiale dei cugini francesi: “Con Marcello Mastroianni e Federico Fellini celebriamo il cinema che è libero ed aperto al mondo, riconoscendo ancora una volta l’importanza artistica del cinema italiano e europeo attraverso una delle sue figure più rappresentative”.
Così fra questo e l’Oscar a Sorrentino, ci consoliamo di una politica per lo meno distratta.
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