La televisione non riesce a comunicare un bel niente. Questa pregevole idea fu proposta, qualche tempo fa, dallo scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger, che avanzò una nuova teoria: il video non è uno strumento di comunicazione, ma una scatola vuota, o meglio, una sorta di quadro astratto dove le macchie di colore si inseguono, similmente alle opere degli artisti moderni e dove non facciamo che riflettere noi stessi e le nostre coscenze.
Non so se è peggio Rosaria Aprea, gia finalista a miss Italia 2014, che racconta delle sevizie e delle violenze subite dal proprio uomo per anni e lo fa “confidandosi” davanti a milioni di spettatori nella sesta puntata della quindicesima edizione di “Amori criminali” ora affidati a Barbara De Rossi, intervistata da Veronica De Laurentiis, anche lei uscita dopo molto anni da un matrimonio violento e che ha trasformato la propria esperienza in una testimonianza da offrire alle donne che vivono situazioni simili; oppure l’idea di una trasmissione sugli “scomparsi” condotta da Albano, che presto vedrà la luce su Rai1 ed in prima serata, mentre l’indomito cantante e vignaiolo si accinge a riunirsi artisticamente con Romina e presenta nell’ultimo segmento di “Pomeriggio 5” il libro di cucina scritto con la madre novanticinquenne, opportunamente intitolato “La cucina del sole”.
O forse il massimo (o minimo che dir si voglia), lo raggiungono Vespa e Domenica In, che si occupano il largo e lungo del povero Ballantini, oberato dai debiti di gioco, che è costretto a lavorare come un negro notte e giorno ed è quindi “costretto” a lasciare Fiorello e Radio1 per poter guadagnare di più ed estinguere i debiti con gli “amici-creditori”.
Stamani l’eroico conduttore con la incrollabire volontà di restiuire il debito di un milione di euro agli amici che si sono esposti per lui, spiegava i suoi motivi anche ad “Uno mattina”, ripetendo accorato: “Chiedo solo lavoro, un’opportunità, so fare tante cose, in vita mia ho fatto tanti mestieri, sono disponibile mi rimbocco le maniche”.
Chissà cosa hanno pensato i licenziati di Terni o quelli dell’Ilva, che pur senza debiti di gioco non riescono a far vivere tranquilli figli e congiunti e pur dandosi da fare, non trovano un lavoro per letà e la crisi che attanaglia l’Italia.
A loro non sono date interviste né racconti, perché il reale va celato, soprattutto quando è triste e quotidiano.
Primo mezzo di comunicazione di massa, la televisione, si è trasformata nel tempo in un’ arma a doppio taglio, anzi, a ben vedere, in un’arma letale.
Se inizialmente essa era nata come un mezzo di diffusione della cultura negli strati sociali più bassi, oggi il suo nome compare sempre di più accostato al termine spazzatura, influenzandoo come nessun altro media, le nostre vite, e condotte, con il continuo invio di messaggi violenti o comportamenti amorali.
Un fiume di immagini e parole che impongono, sotto forma di valori, ideali che valori non sono.
Ma le ragioni di tanto scadimento non sono solo televisive ma anche sociali, perché, in fondo, come in molti hanno scritto, se determinati programmi, ritenuti trash o volgari, hanno tanto successo in termini di ascolti è perché il pubblico televisivo decide comunque di guardarli.
Siamo noi stessi la causa di tanta spazzatura, perché dobbiamo ammettere che siamo i soli promotori delle tante volgarità e nefandezze di cui facciamo poi finta di lamentarci.
Liti e risse televisive hanno picchi d’ascolto da fare invidia e alla televisione urlata, volgare, si affianca quella che spettacolarizza il dolore e i sentimenti più intimi, più personali.
Nel lontatono 1995, Renato Parascandalo, già vaticinava che, nei paesi occidentali, con l’avvento di altre forme moderne di comunicazione o la tv generalista migliorava i suoi contenuti o sarebbe divenuta un sottoprodotto di una cultura infima e trash.
Popper rimprovera giustamente agli operatori televisivi di sottovalutare il loro compito educativo ed affermava che per un reale rinnovamento culturale delle dirigenze televisive si deve rivedere l’intera architettura ideativo-produttiva degli apparati della comunicazione.
Se infatti la cultura, considerata come regno dei valori ideali, degli stili di vita, dei comportamenti affettivi, delle avventure dell’intelletto, non è riducibile a un patrimonio di conoscenze riservate, come una forma nobile di intrattenimento, a una cerchia di mandarini e se essa non è un genere; dobbiamo esigere programmi della TV generalista più stimolanti culturalmente e decisamente meno volgari.
Invece, dopo una difficile giornata di lavoro, ci stravacchiamo a guadare, privi di ogni senso critico, le lacrime di Ballantini o quelle della D’Urso, rendendoci colpevoli di un omicidio etico e culturale che ha abbandonato tutta la tv al suo orribile e nefando destino, che ha incorporato in tutto e per tutto il cosmopolitismo della TV-satellite e il suo stile pacchiano da mondo degli affari, col suo colonialismo culturale che annienta ciò che resta delle culture locali e tradizionali.
Se poi si tiene condo di quando vari massmediologi hanno individuoto e di come la televisioni “educhi” e livelli sia fruitori che operatori, allora ci dobbiamo ancor di più preoccupare di tentare di modificare la struttura degli apparati, il loro funzionamento, il loro modello produttivo, i profili professionali, la burocrazia, perché solo questo può cambiare la mentalità di chi vi lavora e di chi li dirige.
Parafrasando Mc Luhan, insomma, potremmo dire non tanto che il medium è il messaggio, quanto che l’organizzazione del medium è il messaggio, considerando poi il ruolo che ciascuno di noi, con la sua richiesta di cultura, svolge.
In altre parole non avremo una nuova e più coltivata classe dirigente negli apparati televisivi per opera e virtù dello Spirito Santo, ma solo diventando spettatori migliori, perché il vero rischio resta racchiuso nello stile consumistico con cui, su quasi tutti i canali, pubblici e privati, vengono macinate le più terribili esperienze umane, senza limiti di misura o di rispetto e che in fondo stiamo assimilando.
Carlo Di Stanislao
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