(Di Carlo Di Stanislao) Sono d’accordo con Antonio Maiorano: “The Master di Paul Thomas Anderson”, premiato col Leone d’Argento per la migliore regia e la coppa Volpi, ex aequo ai due attori protagonisti (Philip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix), per la miglior interpretazione maschile, dal 3 gennaio nelle nostre sale, accompagnato da grandi aspettative da parte del pubblico, è solo uno spettacolo stilistico e visivo, girato utilizzando una pellicola in costoso formato 70mm, in uso negli anni ‘50 a Hollywood, fatto solo di nitidezza delle immagini e di grandi sfumature cromatiche, ma vuoto, sterile, con una idea di base che sarebbe stata molto interessate se non nascosta dal regista sotto una patina di compiaciuta ricercatezza formale.
La libertà di cui si intende parlare, attraverso la rappresentazione, in nessuno dei 137 minuti di proiezione ha alcuna capacità di attrarre le motivazioni e l’attenzione di chi guarda e si presenta come una dichiarazione di maestria, senza nessuna vera anima al suo interno.
In questo film, privo davvero di costrutto e di cui presto si perderà ogni memoria, il 42enne Paul Thomas Anderson affoga le proprie capacità narrative, realizzando una visione patinata e vuota,con una storia irrisolta convertita in un prodotto giustamente snobbato dagli Oscar.
Ispirato alla fondazione di Scientology e a Ron Hubbard (fondatore della setta ed autore di “Dianetcs”), circondato anche per questo da un pruriginoso interesse, The Master è la storia di una setta nell’America degli anni ’50, con una vicenda che ruota attorno a Dodd, il guru della “Causa” interpretato da P. S. Hoffman e al suo adepto impossibile da redimere, Joaquin Phoenix, in una America post-bellica che resta elemento decorativo ed i seguaci che sono solo fantocci, al massimo deputati a fare una domanda per scatenare l’ira del maestro, perché al regista serve farci capire che è tutta una farsa. Ciò che soprattutto naufraga, è il vero elemento drammatico: il conflitto tra i due personaggi maschili, con attori che sono bravissimi, ma costretti entro ambiti sbagliati.
Insomma, davvero, come hanno notato i critici ed anche il pubblico (uscito negli Usa a settembre, il film sta incassando in tutto il mondo meno della metà del budget da oltre 30 milioni di dollari), ci sono, in premessa, tutti gli elementi per un buon prodotto, ma ciò che manca è proprio il film.
Thomas Anderson, autore di grandi affreschi altmaniani (‘Magnolia’, ‘Boogie Nights’), insoliti thriller crepuscolari (‘Sydney’), epiche saghe d’una certa ruvidezza (‘Il petroliere’), torna a raccontare l’anima profonda delle contraddizioni americane, attraverso il complesso rapporto di dominazione psicologica, con una “storia d’amore tra due persone attratte irresistibilmente l’una dall’altra, ma attraverso una narrazione totalmente irrisolta.
Come ha scritto su La Stampa un grande della critica cinematografica, Gianni Rondolino, un film mediocre e noioso anche se con grandi attori, che dimostra che per fare qualcosa di buono non basta l’interpretazione, indubbiamente buona, di due attori come Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman, e nemmeno la regia di un regista come Paul Thomas Anderson, il quale da molti critici è considerato uno dei migliori nuovi autori del cinema americano. Si tratta invece di analizzare con molta attenzione quella che è possibile chiamare addirittura la “noiosità” di un racconto, che è al tempo stesso lungo e breve, articolato e ripetitivo, geniale e mediocre, come ben sa, ad esempio, il nostro Tornatore e come ha mostrato anche nel suo ultimo film “La migliore offerta”, un film che non vive di sorprese, che è un progetto ambizioso e ben confezionato, dall’appeal internazionale grazie anche all’ottimo cast scelto per realizzare un’idea dalla lunga gestazione, ma che sa che rappresentare una nuova svolta, molto positiva, nella carriera di uno dei migliori autori italiani, che dopo un quarto di secolo (sono passati più di 25 anni dall’esordio dietro la macchina da presa), dimostra di conoscere lo stile, ma di rinunciarvi se deve sacrificarvi una storia.
A differenza di “The Master”, un’opera affascinante, con interpreti (soprattutto Geoffrey Rush, Sylvia Hoeks e l’intramontabile Donald Sutherland), in stato di grazia ed il valore aggiunto delle composizioni emozionanti di Ennio Morricone.
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