“Sono antisessista, femminista, antirazzista, antiomofoba, allergica alle discriminazioni e musulmana” scrive S. sul suo blog ‘. 17 anni, racconta che ha deciso di aprire il blog dopo uno scontro con sua madre, relativo alla sua recente conversione all’Islam, e dopo quello che lei stessa definisce un “esperimento”. “Mi sono messa il velo e sono andata a scuola, durante l’autogestione, per registrare le reazioni delle persone. La gente ti guarda in modo diverso, almeno qui nel centro Italia è così. Ora quasi non ci faccio più caso alle reazioni”. Sorridente sotto il velo colorato, S. racconta della sua esperienza da musulmana convertita: i commenti, talvolta offensivi, degli adulti e dei professori, le reazioni dei “bulletti”.
La pagina Facebook di S. è ricca di post che inneggiano al “Not in my name”, lo slogan della manifestazione di oggi, indetta dall’Unione delle Comunità Islamiche Italiane (UCOII) . “Il mio ‘not in my name’, ‘non in mio nome’, -spiega S.- vuole affermare innanzitutto che è inutile che ci continuiate a prendere di mira, a trattarci con pregiudizio. E a dire ai ragazzi dell’Isis che questo non è il Corano, che quello che fanno non è in nome di Dio e sicuramente non in nome nostro. Siamo presi da questo clima di paura e vogliamo fronteggiarlo. E’ ingiusto che molti di noi debbano giustificarsi per non essere discriminati, ma bisogna muoversi, non si può restare impalati a guardare”. Anche sugli altri tipi di discriminazione e sull’omofobia, S. ha le idee chiare: “Nessuno parla dei movimenti femministi in Egitto o nei Paesi confinanti… ma anche qui demonizziamo il femminismo, figuriamoci se ci mettiamo a parlare di quello egiziano!”. E ancora “non sono un’omofoba. Anzi, ho fatto le mie ricerche, ho capito cos’è l’identità di genere, so che sono cose naturali”.
Dalle parole di questa ragazzina dagli occhi vivaci viene fuori spesso il paradosso del velo, ora vietato, ora obbligatorio, ma sempre sovraccarico di significati: “una ragazza che conosco io è marocchina e fa finta di essere musulmana a casa, ma in realtà non è credente”, ma di se stessa racconta che “vado in giro per strada con il velo, il fatto che io sia una bianca, italiana, magari con i libri di scuola sotto al braccio, scandalizza la gente, a volte le mamme tirano via i ragazzini per la manica del cappotto. Mia cognata è andata a un matrimonio e le volevano levare il velo”. Su questo, S. è categorica: “come una donna è libera di scoprirsi, è libera anche di coprirsi”. E, anche sul rapporto tra scuola e religione, la studentessa ha posizioni molto precise: “la nostra scuola ha ancora un crocifisso attaccato alla parete, come in quasi tutti gli edifici pubblici. Questo vuol dire che non siamo uno stato laico. Quest’ipocrisia, che si difende nel nome della tradizione, ci danneggia tutti” e sottolinea: “non lo dico perché sono musulmana, lo dicevo anche prima (…) la religione è sana quando è intima, prima di tutto dev’essere intima, non deve essere una cosa da condividere per forza”. Oltre a questo gesto simbolico “invece di fare l’ora di religione”, S. suggerisce “un’ora di educazione civica, o di educazione alle altre culture in cui si scopre qualcosa in più sul mondo, sulle altre realtà, senza dover per forza ragionare solo di religione”. (dire.it)
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