Ellen Johnson Sirleaf, presidentessa della Liberia, la connazionale Leymah Gbowee, assistente sociale e organizzatrice di un movimento pacifista che ha condotto alla fine della guerra civile nel suo Paese e Tawakkol Karman, giornalista e attivista politica yemenita di 32 anni, sono le vincitrici del Nobel per la Pace del 2011, assegnato a Stoccolma tre giorni fa, nel corso di una cerimonia in cui si è ripetutamente invocata la parità di genere e le aspirazioni democratiche della primavera araba. Ellen Johnson Sirleaf, 72 anni e prima donna a guidare uno Stato africano, è considerata un “simbolo della nuova Africa”. Giunta al potere dopo 14 anni di guerra civile, la Sirleaf affronta ora l’impegno delle elezioni per un secondo mandato. La scelta di premiarla con il Nobel potrebbe però non essere unanimemente condivisa nell’opinione pubblica: nel 1990, infatti, appoggiò la ribellione sanguinaria Charles Taylor contro il presidente Doe, salvo poi presentarsi alle elezioni da avversaria dello stesso Taylor, nel 1997. Pochi giorni fa, l’11 ottobre, si sono tenute nuovamente le elezioni, che hanno visto la Sirleaf sfidata da numerosi aspiranti presidenti, tra i quali in particolare l’ex Ministro della Giustizia Winston Tubman, che ha indicato come proprio vice-presidente George Weah, e Prince Johnson, il signore della guerra che fece trucidare Samuel Doe. La scelta di assegnare il Nobel per la pace alla presidente in carica a meno di una settimana dalla scadenza elettorale è parsa a molti, e in particolare ai suoi oppositori, inopportuna. Tra le varie accuse che le vengono rivolte, oltre a quelle legate alle scarse performances del paese, dove la stragrande maggioranza della popolazione sarebbe disoccupata, vi sono anche quella di aver tradito l’ex presidente Taylor, al quale avrebbe promesso immunità dai tribunali internazionali, per poi consegnarlo all’Aja una volta eletta. Ad ogni modo, stando almeno ai risultati provvisori, la Sirleaf sarebbe sì in vantaggio, ma non abbastanza da garantirsi una vittoria al primo turno. Se venisse confermato il dato del 44%, la presidente in carica dovrebbe andare al ballottaggio con Tubman (il cui risultato dovrebbe attestarsi attorno al 26%) l’11 di novembre. E, come l’esperienza di cinque anni fa insegna, al secondo turno il risultato potrebbe pure essere ribaltato. Affrica.org vi terrà aggiornati. Va detto che, nonostante vi siano molti oppositori al governo: Edwin Snowe, attuale presidente del Parlamento liberiano (terza carica di governo), è il genero di Taylor e aveva una posizione importante nel suo governo; la moglie separata di Taylor, Jewel Howard Taylor, è nel parlamento, così come Prince Johnson, autore della raccapricciante tortura e dell’uccisione del presidente Samuel Doe (che, tra l’altro, sono registrate in un filmato di ampia distribuzione), il 17 marzo 2006, la presidentessa Johnson-Sirleaf ha sottoposto alla Nigeria una richiesta ufficiale di estradizione per Taylor. L’altra liberiana premiata, Leymah Gbowee, 39 anni, è una militante pacifista e nonviolenta che ha contribuito a mettere fine alle guerre civili che hanno dilaniato il suo paese sino al 2003. Piccola, di carnagione chiara (per questo è soprannominata “rossa”), la Gbowee ha da poco pubblicato la sua autobiografia, “Mighty Be Our Powers: How Sisterhood, Prayer, and Sex Changed a Nation at War” (“La forza dei nostri poteri: come le comunità di donne, la preghiera e il sesso hanno cambiato una nazione in guerra”). La più giovane delle premiate ha appena 32 anni, esattamente come quelli del potere del presidente yemenita Ali Abdallah Saleh, tre figli e coraggio da vendere: Tawakkol Karman è un’attivista yemenita per i diritti umani, divenuta in poco tempo la leader della protesta femminile contro il regime yemenita. Sono tante le donne che hanno vinto il Nobel e in vari settori, ma, a ben vedere il loro numero resta esiguo rispetto a quello (300) dei premi assegnati. Il premio Nobel per la pace è sempre stato un premio particolare, controverso, del quale non è mai stato facile indagare fino in fondo i motivi o l’utilità. Negli ultimi tre anni il premio è stato assegnato a persone talmente diverse e gli sono stati attribuiti dei significati talmente differenti che risulta davvero complicato riuscire a individuarne una sorta di fil rouge. Giusto nel 2009 il premio Nobel per la pace fu assegnato a Barack Obama, neoeletto presidente degli Stati Uniti d’America, “per il suo straordinario impegno per rafforzare la diplomazia internazionale e la collaborazione tra i popoli”. Un Nobel discutibile e discusso il suo, assegnato tra le (giuste) polemiche di quanti nel mondo ritenevano assolutamente inconsistente come motivazione quella di essere “riuscito a catturare l’attenzione del mondo e a dare una speranza per un futuro migliore”. Il Wall Street Journal, all’epoca, riuscì a delineare perfettamente l’assurdità di una situazione in cui ”un leader può vincere il premio per la pace per aver detto che spera ad un certo punto in futuro di portare la pace. Non lo deve fare, basta che abbia le aspirazioni”. Le tre donne del Sud del Mondo, premiate quest’anno, sono persone molto particolari, nelle quali riesce davvero difficile riconoscersi o identificarsi, ma che in qualche modo riescono ad essere mediaticamente d’impatto (perché sono tre, e il numero fa la forza; perché sono arabe e quindi il loro nome si ricollega all’aura di rivoluzione e cambiamento che a torto o a ragione ha investito quei luoghi in questo periodo; perché sono donne, e in qualche modo si pretende che rappresentino l’intera categoria, ergendosi a vessillo del cambiamento). Sintomo eloquente di questa pretesa è la motivazione che ha accompagnato l’assegnazione del riconoscimento alle tre signore, premiate “per la loro lotta non violenta per la sicurezza delle donne e per i diritti di partecipazione delle donne in un processo di pace”. La trinità della pace ha dimostrato ancora una volta che la cooperazione e la collaborazione e la condivisione tra donne is possibile. Ecco perché all’assegnazione del premio non ci sono stati spargimenti di sangue o di bulbi oculari perforati.
Non ci sono stati nemmeno pianti e ringraziamenti diretti al televoto, a mamma e papà e a tutti quelli che mi vogliono bene e credono nelle mie cosce; non c’è stato nessun presidente di giuria dodicenne e glabro che le ha avvitate sotto una coroncina trasparente di sbrillocchi costosi, ma soprattutto, nessuna delle tre ha stritolato il microfono mentre miagolando e piangendo prometteva: “Porterò la pace nel mondo”. Le tre vincitrici, sono donne che, senza rifritta retorica, stanno combattendo nelle rispettive nazioni adoperando bombe intelligenti, quelle che di solito non bucano la terra né fanno saltare braccia, gambe o vite appena spuntate. Bombe ideologiche, di posizione, caricate a passione e non violenza. Il Nobel a queste donne è stato, quindi, un riconoscimento significativo per tre persone che con il loro operato hanno contribuito al rafforzamento dell’identità femminile nel mondo, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, dai quali provengono. Rocordiamo che, in tutto, 15 sono state le donne premiate con il Nobel per la Pace dal 1905 ad oggi: Bertha von Suttner, Jane Addams, Emily Greene Balch, Mairead Corrigan e Betty Williams, Madre Teresa, Alva Myrdal, Aung San Suu Kyi, Jody Williams, Rigoberta Menchu Tum, Wangari Maatha, Shirin Ebadi e, quest’anno Ellen Johnson Sirleaf, Leymah Gbowee e Tawakkol Karman, quest’ultima la più giovane in assoluto e la prima donna araba a ricevere il prestigioso riconoscimento. Durante la cerimonia del 10 dicembre scorso, la Karman, icona del movimento di protesta in Yemen, è stata applaudita quando ha detto che “il periodo in cui le donne erano vittime” è finito. “Ora – ha aggiunto – sono delle leader, non solo dei loro Paesi, ma delle loro lotte. Sono leader del mondo”. La Sirleaf ha invece detto che il riconoscimento ha rafforzato il suo impegno per lavorare per il potere delle donne in Africa. La leader, prima presidente donna democraticamente eletta in Africa, è salita al potere nel 2005 e ha vinto il voto di ottobre. Elogiata dalla comunità internazionale in particolare per gli sforzi nel far riemergere la Liberia dalla brutale guerra civile, ha dedicato il suo Nobel alle donne africane che hanno sofferto nei conflitti. “Sono loro che hanno portato sulle spalle il peso delle guerre, che hanno subìto stupri e schiavitù sessuale”. “Nonostante i conflitti – ha concluso – hanno continuato a occuparsi dei loro figli, anche se i loro mariti erano fuori in guerra”.
Carlo Di Stanislao
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