(Di Carlo Di Stanislao) Come aquilano sono particolarmente fiero della colonna sonora, affidata alla nostra Sinfonica, registrata all’Auditorium Parco della Musica, con una esecuzione a cui ha preso parte anche lo stesso Veltroni.
E’ uscito ieri sugli schermi “Quando c’era Berlinguer”, docu-film diretto da Walter Veltroni che, da giornalista e cinefilo, ha voluto ripercorrere i contorni di una figura complessa per raccontare un pezzo di storia recente italiana e che la sera, sempre nell’’Auditorium progettato da Renzo Piano, dell’anteprima assoluta, ha ricevuto una standing ovation, con commenti entusiastici da parte di operatori culturali ed appartenenti alla storia di quel partito che, appunto, Enrico Berlinguer, scomparso trenta anni fa ed oggi quasi dimenticato, avviò a cambiare da PCI a PDS.
Il film è stato realizzato con rigore e, sebbene al centro abbia la figura di un uomo carismatico con molti meriti e limiti, non parla solo di Berlinguer, ma anche degli eventi traumatici accaduti nella nostra storia recente (caduta del comunismo, fine dei partiti della prima repubblica, trionfo dei media, leaderizzazione della politica, depoliticizzazione dei cittadini), con un bilancio disinteressato e spassionato, ma anche con un monito amaro: dopo trenta anni non solo le speranze di Berlinguer sono cadute e la situazione è ancora peggiorata, ma anche il suo partito e quelli da esso derivati sono stati coinvolti in quelle grosse ruberie, che il moralismo di Enrico condannava aspramente. Troppe per essere elencate. Timido e cupo, impacciato e silente, per il popolo ancora rosso era una icona (un milione di persone al funerale) e, con tutti i suoi limiti, aveva ragione Montanelli che diceva: “può anche aver commesso degli errori: mai disonestà o bassezze”.
In verità, a guardarlo con oggettività adesso, tutta la sua attività fu paradossalmente ambivalente: da un lato gesti di fedeltà al comunismo, dall’altro prese di distanza dall’Urss, anche se certo è una esagerazione parlare di “strappo”: il Pci lo fece solo dopo la caduta del comunismo, quando cioè non c’era più niente da strappare. È vero, tuttavia, che Berlinguer non era ben visto: nel 1973, in Bulgaria, un camion militare investì la sua macchina e si salvò per miracolo (incidente o Kgb?).
Giustificò l’invasione della Ungheria, ma condannò quella della Cecoslovacchia; operò per un incontro tra operai e produttori, ma si schierò contro la marcia dei 40 mila a Torino; esaltò l’ombrello della Nato come difesa della libertà, ma santificò i Vietcong nonostante conoscesse i loro genocidi; nascose il terrorismo rosso degli anni Settanta, poi lo chiamò “fascista”; prese a lungo l’oro di Mosca, che rifiutò solo negli ultimi anni; parlava del “valore assoluto” della libertà di stampa, ma denunciò Forattini per una vignetta satirica.
Queste contraddizioni si colgono nel docu-film di Veltroni, ma anche il rimpianto per un modo migliore e per uomini migliori che affollano il palcoscenico politico. Walter, con i filmini privati dell’autore, le immagini dei telegiornali e quelle delle Tribune Politiche, la biografia personale e politica del protagonista, le interviste (dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, alla figlia Bianca Berlinguer, dal fondatore delle Br Alberto Franceschini al capo scorta Alberto Menichelli passando per Eugenio Scalfari e Jovanotti), è riuscito a tratteggiare una figura mitica e complessa, molto più variegata di quanto affidato alla sbiadita memoria, resa più austera e credibile dalla voce affidata a Toni Servillo (mentre è Sergio Rubini a prestare la voce a Pier Paolo Pasolini), col il reperimento dei luoghi della formazione di Berlinguer, le sue letture giovanili, le sue passioni, a cominciare dal mare della Sardegna, sua oasi di serenità.
Weltroni ha usato il repertorio cercando le immagini meno conosciute e attingendo a quanto è stato prodotto, nell’immaginario, dalla sua figura, per costruire un racconto corretto storicamente, ma giocato sul filo lieve e persino dolce della memoria di quel tempo: non solo del suo lavoro, ma dei passaggi storici che hanno accompagnato la sua politica.
Per quanto mi riguarda vi ho visto più che un filo di nostalgia per un periodo durante il quale buona parte della politica era finalizzata all’interesse comune,quando non era ancora scaduta come lo sara’ di li’ a breve, a metodi tesi a far si che “se i conventi erano poveri, i frati erano ricchi”)e che dopo la breve e speranzosa parentesi di tangentopoli,ebbe a proseguire in ancor piu’ mala e privata gestione durante un ventennio, dei quali esiti in molti ed uno in particolare dovranno vergognarsi in eterno.
Vi ho trovato nello stile, quello stesso di Martone in “Noi credevamo”, con una scena politica eterodossa ed utopica, in certi momenti quasi soffocato dal bisogno di un didatticismo troppo incombente, che toglie passione e anima ai personaggi, ma, in fondo, riuscito nell’empeto nostalgino e nello slancio narrativo, con riuscita l’operazione di base: la grande ed encomiabile ambizione di affrontare i tanti nodi di una storia patria che coi tempi che corrono ha sempre più bisogno di essere conosciuta e divulgata.
Veltroni decide di partire in maniera molto diretta nel suo documentario, girando per le città d’Italia e domandando chi sia Berliguer: agghiacciante il livello delle risposte ottenute, che vanno dal più semplice “non lo so” ai peggiori “un cantante”, per arrivare ad ipotizzare un improbabile leader coreano o francese. Questa prima parte resta abbastanza sconcertante, ma è semplicemente lo specchio della realtà odierna, dove un politico come Berliguer non esiste più, dove un uomo come Berlinguer nella politica di oggi non avrebbe spazio, e che, questo è vero, resta oscuro alle generazioni moderne perché i programmi scolastici dei licei si fermano ormai troppo presto per conoscere questi eventi di storia italiana. Ecco allora che Veltroni si serve di bellissime immagini di repertorio e di un montaggio stimolante per raccontare quegli anni, costellati da personalità importanti come Aldo Moro, dalla nascita delle Brigate Rosse e dalla morte del comunismo italiano l’11 giugno 1984, con la scomparsa di Enrico Berlinguer. Veltroni non ripercorre pedissequamente ogni tappa, ma cerca di raccontare gli eventi più significativi, anche attraverso le voci e le testimonianze di chi Berlinguer lo ha conosciuto, sostenuto e che ora lo ricorda con affetto estremo. Se c’è una critica che si più muovere nei confronti di questo prodotto è che forse è troppo emotivo, carico del sentimento di ammirazione che Veltroni nutre nei confronti di chi, per lui, è stato un esempio e un modello, perdendo a tratti la lucidità e soffermandosi forse troppo su alcuni eventi. In fondo una dichiarazione d’amore, dove la razionalità e l’ordine hanno solo un ruolo marginale. E in cui, indipendentemente dal valore artistico, resta il racconto di un modo di fare politica lontano anni luce dalla situazione attuale, e che varrebbe la pena di vedere, anche solo per conoscere e, probabilmente, rimpiangere.
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