(Di Carlo Di Stanislao) Gli unici veri brividi c’è l’hanno forniti la Guardia di Finanza, in giro per Sanremo a caccia di esercenti che non fanno scontrini e il default del sistema elettronico di voto, perché per il resto tutto è stato scontato e previsto.
Anche la noiosissima e lunghissima (estenuante davvero) tirata di Celentano, che, per 25 minuti, se la prende con tutti, stampa cattolica in testa, che di tutto si occupa, dice, tranne che di spiritualità.
Dopo la divertente apertura (forse un po’ troppo scatologica) di Paolo e Luca, un Morandi ingessato ed un Papaleo acitasico, aprono la 62° edizione di un Festival che non riserva sorprese (a parte l’assenza di Ivana Mrazova, la 19enne modella ceca costretta a dare forfait) e che, soprattutto, non propone buone canzoni, a parte, credo, Dolcenera e la rampollla di Zucchero, che ci provano ad essere un tantino diverse.
Senza molte metafore Luca e Paolo si sono dimostrati convinti di una cosa: l’ondata di nuovo che dovrebbe aver pervaso l’Italia è ancora lontana dal cambiamento culturale che sarebbe necessario.
E questa è stata la “novità” più memorabile della serata.
Quanto a Celentano, preceduto dal rumore sordo e terrorizzante degli scoppi di bombe, con sirene ululanti, immagini di edifici in fiamme, di aerei che bombardano obiettivi di terra e di mare, fasci di luce bianca che sciamano da un punto all’altro, imbarcazioni colpite, gente che fugge ovunque, stavolta ha mirato dritto contro “Avvenire” e “Famiglia Cristiana”, definiti “inutili”, testate “ipocrite” e che – ha detto esplicitamente – “devono chiudere” e poi attaccato la Consulta, per aver bocciato il referendum sulla legge elettorale.
Il tutto con un fare ancor più limaccioso e scontato del solito.
Guardandolo si comprende perché Vincenzo Sparagna lo ha definito l’archetipo della apocalissi culturale che ha ormai devastato il Bel Paese: un vuoto ed un niente fatto di tristi ed imbarazzanti monologhi apprezzati solo dalla claque, composti da un minestrone di ovvietà, stupidaggini allo stato gassoso, ammiccamenti silenziosi al nulla, pseudodissenso privo di vera, autentica, graffiante efficacia.
Per tutto questo prenderà 300 mila euro (di soldi pubblici) a serata, l’equivalente, in venti minuti ,di venti anni di salario di un povero cristo qualsiasi. E non conta il fatto che li darà in beneficenza.
Tra il dramma evocato dalla scenografia e i contenuti del suo sermone, mi sono sentito profondamente frustrato tanto da trovare odiosi anche i momenti in cui ha fatto ricorso al suo vecchio e consolidato repertorio di boogie-woogie.
Fra gli altri Celentano ha attaccato anche Aldo Grasso, definendolo “deficiente”, dopo che, alla metà di dicembre del 2011, in un video sul Corriere della Sera il critico televisivo, lo aveva accusato di farsi vedere in giro solo quando deve promuovere qualche disco.
Ma i fatti, a guardarli lucidamente, danno ragione a Grasso.
All’inizio del mese, fra le altre “voci” sul Festival più famoso d’Italia, il secolo XIX aveva esploso “l’ipotesi-bomba” di un duetto Celentano-Grillo nella terza serata dal palco dell’Ariston.
Fosse vera la notizia, si tratterebbe di un doppio evento. In primo luogo perché Grillo – a parte alcune interviste – non appare in Rai dal 1993, quando la cosiddetta Rai dei professori lo convinse a tornare in tv con il suo “Beppe Grillo Show”: due puntate che precedettero l’ostracismo definitivo. E poi perché avremmo a confronto due diversi tipi di populismo: generico e raffazzonato uno, più meticolosamente studiato l’altro.
Com’è noto, il politologo Marco Tarchi, in “L’Italia populista”, ricostruendo le vicende del populismo nel nostro Paese, si sofferma soprattutto sui due movimenti più schiettamente populisti: l’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini (l'”uomo qualunque” contro l'”uomo politico”) e la Lega Nord (il “popolo del nord” contro “Roma ladrona”) e, ricordando Guy Hermet, sostiene che Forza Italia sia invece un esempio di “neo-populismo mediatico”, ovvero una forma di demagogia che fa un uso massiccio dei media.
Ebbene è giunto il momento di dire che questo nuovo populismo mediatico non è cavalcato solo da Berlusconi e che non è solo la tv il mezzo di cui si serve.
I segni mostrati, in questi giorni, dal professor Monti rassicurano chi, come me, pensa che, nei limiti dettati da un’assurda situazione parlamentare e politica, il nuovo governo farà le cose essenziali per salvare il Paese dal baratro economico in cui è già precipitato e lo convincono a sostenere la nuova compagine fino a quando sarà necessario.
E, chi come me ci crede davvero in questo, non può più sopportare il vuoto populismo contrario a prescindere, di comici come Paolo e Luca o canzonettisti prestati all’imbonimento come Celentano.
Tornando a ieri sera, Belen Rodriguez, esonerata da Tim, era tesa e nervosa ed Elisabetta Canalis era con la testa altrove.
Già il pubblico non le adorava e, credo, dopo ieri, le apprezza ancora meno.
Fumettistiche e glamour le scenografie di Gaetano Castelli, che per la 19° arreda il palco con plastificazioni policrome alla “Flah Gordon” e, come era accaduto nel 2010, nella edizione condotta da Antonella Clerici, quanto un’imponente astronave svelò al pubblico l’immagine della boccoluta conduttrice, oltre che quella, altrettanto burrosa di J.Lo, ospite internazionale di quell’edizione, riporta una astronave-arca sul palco, lunga venti metri e alta nove, del peso di venti tonnellate, che ha richiesto un lavoro di rinforzo delle strutture del Teatro Ariston e che ci è sembrato un decoro fuori luogo e privo di ogni contesto.
Ed è proprio al bruto film dell’80, diretto da Mike Hodges, tratto dall’omonimo personaggio dei fumetti ideato da Alex Raymond, che ho pensato, guardando le architetture della messa in scena: una sorta di Pianeta Mongo deprivato di ogni spessore e con una cattiva musica come contorno, brutta come l’unico album brutto dei Queen, che proprio a Flash Gordon era dedicato.
Dimessa ed imperfetta anche la regia, con una fotografia troppo “sparata” ed eccessivi movimenti di macchina, che tentano di vivacizzare un palco statico in modo imbarazzante.
Insomma, anche il pur bravo Daniele Vicari, si abbandona al risaputo pattume di una industria piegata ai consumi e racconta, con piattezza, una serata piatta, in cui neanche i microfoni ed i luccichini sembrano funzionare.
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