(Di Carlo Di Stanislao) Quando, nel 2011, girò Scialla!, fu accolto dalla critica come un salvifico pioniere della nuova, possibile, commedia nazionale, ma ora, con questo nuovo lavoro, Francesco Bruni, presidente dei “100 Autori”, scivola nella lezioncina morale, con tanto di ripensamento finale e buoni sentimenti allungati all’eccesso.
Insomma in “Noi quattro”, suo ultimo film da scrittore e regista, non ritroviamo nulla di quel gioiello ingenuo e raro nella nostra cinematografia post-Duemila che si chiama Caterina va in città e neanche, in sede di partitura, di quell’altro, Ovosodo, perché nel raccontare la complicata giornata di una sfaldata famiglia romana che intreccia le proprie storie e ragiona sul fallimento di felicità, ci mette tutto l’impegno per essere banale, di riempire e ricalcare gli spazi e i silenzi sulla base di presunte verità che poi non sono mai quelle reali.
Bruni, ha detto, ieri sera a “Otto e mezzo” che in Italia nessuno ha il coraggio delle verità, anche a costo di essere antipatico e parlando degli ultimo governi, ha chiosato che tutti i leader post-berlusconiani, compreso Renzi, sono solo degli imbonitori che tirano la coperta corta da qualche parte, senza prendere in mano la situazione.
Lui ha fatto lo stesso confezionando una insulsa commediola per famiglie rimbecillite da televisione e pubblicità, con lieto fine e nessuna acuta riflessione, con una figlia 23enne (Lucrezia Guidone, già attrice per Ronconi) per lo meno disordinata, una madre risaputamente nevrastina e rompicoglioni, mentre l’attrice Ksenija Rappoport meriterebbe ruoli mefistofelici e titanici, il talento del giovane Luciano Bracci tedesco completamente appiattito e Fabrizio Gifuni francamente poco credibile nei panni del papà distratto, motociclista senza lavoro, dal sorriso beffardo e in decisa contrapposizione alla madre iperprotettiva e professionalmente rampante.
I dialoghi sono scombinata e tremendamente convenzionali, con il risultato dio una commediola pulitina e conciliante , del tipo che tanto piace alle redattrici delle rivista di moda o di eventi.
Insomma, dopo questo film, consigliamo Bruni di tornare a scrivere per Faenza e Virzì e magari rivedere per intero questo tema, in una Roma che ormai dopo Sorrentino tutti descrivono come brutta, in cui la doppia valenza del legame familiare è forza che nasce dalla condivisione e nello stesso tempo impossibilità di costruirsi una sfera affettiva altra o di imparare a crescere per davvero.
Tornando alla sortita (promozionale” da Lilli Gruber, direi che si tratta di un film renziano, con molte belle intenzioni lanciate ma lasciate anche sospese nell’aria.
Insomma, come titolava su Panorama Gianpaolo Pansa a proposito di Renzi, “Sotto la lingua niente”, perché niente traspare nel racconto circa i veri motivi e le reali soluzioni allo sfascio famigliare.
Come Renzi Bruni crede che, per incanto, l’Italia diventerà il Paese dei balocchi in cui tutto funziona a meraviglia: le regole saranno impeccabili, il governo sarà di uno solo, l’onestà trionferà e tutti vivranno felici e contenti.
Da salvare (nel film, perché non so cosa salvare- e ne tremo- alle prime prove interne ed esterne del parolaio biancorosa, che continua ache sembra recitare la parte del bel ragazzo col faccino simpatico e qualche neo messo ad arte); il sonoro, efficace nella rappresentazione ossessionante dei rumori del traffico ed anche nel creare una impressione di struttura caleidoscopica nel banale minuetto che ballano i protagonisti, che si ritrovano a due a due e si riuniscono solo dopo aver formato tutte le possibili (e risapute) combinazioni.
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