(Di Carlo Di Stanislao) Per alcuni è stato il principale responsabile della sfaldamento della sinistra, per altri un uomo che ha fatto al meglio ciò che ha potuto in un periodo storicamente difficile e con molte, moltissime incognite.
Primo segretario del PDS, Achille Occhetto, l’uomo della svolta “Bolognina” che chiuderà lo storia del PCI, ha pubblicato: “La goiosa macchina da guerra, veleni, sogni, speranze della sinistra ”, Editori Riuniti, con prefazione di Michele Serra, per raccontare, dal suo punto di vista ed utilizzando la frase tanto ridicolizzata, una fase complessa che risultò risibile non perché lui lo fosse, anzi, ma perché, a parte D’Alema (che ebbe la forza di prevalere su tutti gli ex-ufficiali del PCI e di imporre l’idea che la politica la detta solo il Quartier Generale), tutti gli altri erano peones, in parlamento, in piazza e nell’urna.
Nel suo libro Occhetto svela, senza cerimonie, le ingenuità non solo sulla valutazione degli ostacoli per vincere fuori, ma su quelli ben più duri, del vincere dentro. Ovvero di contare e controllare il partito di cui, in teoria, era ancora il segretario. Giudicando da fatti che sono poi accaduti, è evidente che il destino di Occhetto, segretario deposto senza tante formalità dal circolo ufficiali del suo partito, sarebbe potuto essere diverso. Come a fine estate ha scritto Furio Colombo su il Fatto Quotidiano, altri estranei (come Romano Prodi) sono stati accompagnati all’uscita in quanto non “interni” al circolo. E la stessa sorte, fare in modo che non avessero alcuno spazio e alcun ruolo, è stato riservato a buoni e volonterosi compagni di strada che intanto si erano associati all’avventura pensando a una partecipazione politica che, invece, era stata prontamente vietata, a sinistra, sia in piazza che nel partito. E quando gradatamente quel partito è sfumato da Pds a Ds e poi a Pd, non tanto (non solo) la leadership era stata cambiata (o spinta fuori, come nel caso di Veltroni) ma era stato cambiato il “chip” della macchina. Adesso la macchina voleva la normalità impossibile della collaborazione con Berlusconi che oggi Renzi ha imposto e realizzato.
Altro che persona ingenua e ridicola; Occhetto è stato è stato il primo, e forse il solo, a capire che un grande partito con un immenso patrimonio di legami popolari non si tiene immobile fingendo che non sia accaduto nulla, ma anche non lo si liquida nascondendo le bandiere, smontando le feste e mandando tutti a casa, con il modesto espediente che non c’è bisogno di tutta quella gente in piazza.
Dal tempo della dissoluzione dei partiti, così come li avevamo conosciuti fino a quel momento, dalla metà degli anni novanta quando c’era chi fuggiva dalle finestre di piazza del Gesù, gloriosa sede della Democrazia cristiana, e chi si calava dai lampioni della luce intorno all’edificio del Psi, per allontanarsi nel buio. Privilegiato da un grande accidente accaduto un po’ prima (la caduta del Muro di Berlino) Occhetto ha capito più in fretta e meglio dei pretenziosi saggi del suo partito, che in condizioni simili non puoi restare immobile e non devi fuggire. E che il cambiamento della storia non fa cambiare come camaleonti i protagonisti del prima affinché possano entrare, come nuovi, nel dopo.
Occhetto chiese visibilità fino al rischio non per dei transfughi, ma per dei protagonisti che entrano insieme a tutto il loro popolo di militanti ancora intatto, in una storia diversa in cui, però, le radici continuavano a essere la Resistenza e la Costituzione e il leader-simbolo Berlinguer, con la sua “questione morale” ed il tentativo di contaminarsi con la Democrazia Cristiana. Da questo punto in poi, la sua narrazione si muove come se fosse inevitabile tenere conto della forza, della tradizione, della rispettabilità e del peso di un partito di popolo come il suo.
Era il 12 novembre del 1989, anno di chiusura del “secolo breve” quando il Partito comunista diventò Pds, generando il pianto e la rabbia di molti militanti per una cosa che oggi stentano a riconoscere anche quelli che la domenica mattina arrivavano in sezione e sentivano parlare di Ungheria e Berlinguer e contro l’Unione sovietica.
Ad Occhetto i nostalgici dello stalinismo puro e del puro PC, rimproverano tutto, a partire, ad esempio, dalla trasformazione della rossa Bologna in una città arancione, che si apriva alla stagione di Sergio Cofferati, il sindaco che viveva a Genova e poi a quella di Flavio Delbono, il professore bruciato dalle gite d’amore con l’amante, pagate con i soldi pubblici.
Ha presentato il suo libro a Treviso due settimane fa l’ultimo segretario del deposto Partito Comunista, primo del neonato PDS, co-fondatore e vicepresidente del Partito del Socialismo europeo nel 1990, più volte eletto deputato nel Parlamento italiano e in quello europeo e presidente della Commissione Affari esteri della Camera (dal 1996 al2001); membro del Consiglio d’Europa dal 2002 al 2006, che da ragazzo ebbe la possibilità di assistere alle misteriose esperienze della vita cospirativa, che si svolgevano nell’appartamento di famiglia, diventato la sede clandestina della “Sinistra cristiana”, movimento antifascista formato da cattolici comunisti e fondato da Felice Balbo e da Franco Rodano. Il ricordo di quegli anni, dominato dall’andare e rivieni di gappisti e partigiani comunisti, socialisti, cattolici e del Partito d’Azione, rimarrà fortemente impresso nella sua formazione morale e influenzerà l’ispirazione fondamentale della Svolta, guidata dall’aspirazione verso una nuova unità tra tutte quelle componenti che la guerra fredda aveva diviso, e che invece nella sua infanzia aveva visto guidate da una formidabile ispirazione ideale unitaria.
Nel dicembre del 2009 decise di sostenere il progetto costituente di Sinistra Ecologia e Libertà, spinto dalla esigenza di superare sia la vetero – sinistra estremista e sia la deriva del riformismo moderato, e convinto soprattutto del grande valore, da lui sostenuto dai tempi della Svolta, del primato della libertà, un primato in cui ha sempre creduto, come racconto anche qui, in un libro che è spaccato di rilevanza storica del passaggio da un’esperienza personale tutta interna alla storia del comunismo al radicale superamento di alcuni suoi capisaldi teorici e pratici.
Più che di una autobiografia, si tratta della lucida narrazione di un intero secolo segnato solo da svolte epocali, che allo stesso tempo si forma e cresce e si connota all’interno di un partito – il Pci – che per decenni ha avuto tra i suoi “inquilini naturali” i più vari rappresentanti di quelle svolte – marxisti, operaisti, cattolici, liberali, crociani, borghesi radicali, antifascisti – uniti dall’idea dell’esistenza possibile di un’alternativa di sinistra alla piccola Italia dei compromessi, dell’opportunismo e della corruzione. E la “svolta” di Occhetto, la celebre Bolognina, insieme al famoso ossimoro che dà il nome a questo libro, è l’ultimo atto di un secolo tragico, come tragiche sono le grandi storie segnate dalle grandi passioni, prima che l’insorgenza berlusconiana contaminasse con i suoi veleni una sinistra irretita dal mito del potere. Oggi, che degli ultimi vent’anni della storia politica italiana abbiamo una visione chiara – e del fallimento dei suoi miti subiamo ancora le conseguenze – la svolta della Bolognina non ci appare più nel ricordo nostalgico di un tentativo estremo e non riuscito, perché i sentimenti, le pulsioni e soprattutto gli obiettivi reali che l’hanno mossa aprono davanti ai nostri occhi una possibilità nuova per la sinistra e per il futuro dell’Italia.
Leggendo il libro di Occhetto non posso non paragonarlo a l’ultimo, autobiografico, di Bruno Vespa e considerare che anche se ognuno ha diritto alla propria autobiografia, sono solo quelle coraggiose che rivestono utilità di lettura.
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